domenica 11 luglio 2021

Treviso non è pronta: l’odissea del rientro in Spagna tra QR e Green Pass

Il concetto di ordine è alieno al DNA dei popoli mediterranei. Capisci da dove arriva uno dal modo in cui si mette in fila, e la disposizione da parterre di concerto pop dei passeggeri diretti a Málaga non lascia dubbio alcuno sulla loro nazionalità. Italiani, spagnoli, poco importa: le differenze ora si appianano nei volti confusi, nello gesticolare sfrenato, nei decibel in ramping sotto la mascherina. Cosa caz*pita tengo que hacer. 

Quelli che mi si accalcano attorno non sono più turisti di ritorno da un viaggio a Venezia, con ancora in testa il cappello da gondoliere comprato dai filippini a Rialto.  Non sono viaggiatori intrepidi pronti a sfidare i 40 e passa gradi della bella Andalusia per poi raccontare che sì, bella la mezquita, ma facciamo che ci torno quando non rischio l’autocombustione.
Forse non sono neanche più persone. In questo momento sono (siamo) tutti solo centinaia di esseri isterici che si ammassano senza alcun criterio in una stanza più piccola del salotto di casa mia…  e non è che viva precisamente in una mansione da diva hollywoodiana.
Al centro del girone infernale, un tizio autoelettosi benefattore della comunità sta urlando senza sosta il numero del volo. Attorno a lui, si stanno formando piccoli cerchi di sconosciuti che si copiano l’un l’altro le risposte alle domande sul cellulare.
“Io che posto ho?”
“Signorinaaaaa io sono vaccinato, posso passare? Guardi, ho il green pass!”
“Qua cosa devo scrivere? Veneto?”
“Ma il qr è quello della certificazione verde?”
“Questionario? Che questionario?”


Tra gomitate, spintoni e passaggi tipo limbo sotto ai nastri rossi e bianchi che dovrebbero separare le code ai check in, la marea umana si sposta da un lato all’altro della hall seguendo ipnotizzata le direttive degli schermi. Che, come no, cambiano idea ogni 5 minuti.
“Chi ha solo il bagaglio a mano alla porta 3”
“Chi ha solo il bagaglio a mano alla porta 5” 

“Potete andare a qualunque porta, basta che facciate presto, per Dio”. 

  
E pensare che poteva essere tutto così semplice…

La tipica "fila mediterranea" all'aeroporto di Treviso




Per entrare in Spagna bisogna compilare un questionario online del Governo, che ha l’obiettivo di rintracciare in fretta i nuovi casi di Covid-19 sul territorio, frenando la diffusione dei contagi. Ti chiedono robe tipo i tuoi dati, i recapiti, da dove arrivi, quali Paesi hai visitato negli ultimi 14 giorni, dove alloggerai in Spagna e che certificato alleghi per dimostrare che non stai portando il virus a passeggio: tampone negativo (se sì, di che tipo, fatto dove e in che data), ciclo vaccinale terminato o avvenuta guarigione.
Una volta fornite tutte le informazioni richieste, si genera un codice QR che viene SEMPRE E COMUNQUE richiesto all’arrivo: se ce l’hai, passi la frontiera. Se non ce l’hai, no.

Mi pare quindi sensato che controllino che tu ne sia provvisto ancor prima di decollare. Voglio dire: se sei già atterrato a Málaga, vai bello arzillo verso l’uscita e ti fermano perchè non hai il QR compilato che fai? Passi il resto dei tuoi giorni in aeroporto come Tom Hanks in The Terminal? Io finirei per spendere tutti i miei soldi da Natura e metterei sú 8 kili da Starbucks, tutti sul sedere. Non è il caso. 


Ad ogni modo non ci vuole una laurea in organizzazione di eventi per capire che il modo più veloce ed efficace di verificare che uno abbia compilato ‘sto benedetto questionario sia chiederglielo nei momenti in cui è già in fila per mostrarti qualcosa. Ai controlli di sicurezza, per esempio. O addirittura al gate, subito prima del decollo. La signorina che ti chiede la carta d’imbarco potrebbe chiederti, assieme ad essa, anche il codice QR per entrare in Spagna. Hanno pure la macchinetta apposta per leggerlo. Si perderebbero circa 0,5 secondi in più per passeggero, e non si creerebbero altre file. 


Facile. Rapido. Sicuro. 


Ma l’aeroporto di Treviso is different. 



Lì la  suddetta signorina dei controlli di sicurezza ti informa - peraltro con tono visibilmente seccato - che per poter passare per tutta la trafila di vassoi e metal detector devi prima recarti al check in, dove ti controlleranno la documentazione per l’ingresso in Spagna.
Il che significa che , se hai scelto di viaggiare solo con bagaglio a mano proprio per  evitare di fare la coda al check in (o, ancora peggio, se hai pagato 4,50 € in più per il fast track) avrai la nitida visione dei tuoi soldi piegati in forma di aeroplanino che decollano verso destinazioni esotiche facendoti ciao ciao con la manina.

Una volta al check in, un’addetta solo un filino più cordiale della prima scriverà a MANO su un foglietto poco più grande di un francobollo la sequenza della tua carta d’imbarco e ci piazzerà sopra un timbro rosso con su scritto QR CHECK OK. A partire da quel momento, quel piccolissimo pezzetto di carta stropicciato sarà il tuo tesoro più prezioso: non solo ti servirà per accedere ai controlli di sicurezza, ma ti verrà richiesto persino per salire sull’aereo.
Tutto molto coerente, non c’è che dire: si consiglia vivamente di non stampare il biglietto, il green pass e il questionario sanitario si accettano cartacei solo ed esclusivamente in caso di comprovato impedimento tecnologico, si cerca di limitare l'utilizzo della poco igienica carta in favore del digitale for ever and ever… ma per dimostrare che possiedi il codice QR necessario a entrare in Spagna devi mostrare un bigliettino scarabocchiato con la biro, più piccolo e malridotto dello scontrino del supermercato che hai infilato in fretta e furia nei jeans. Eccerto.

Ma il punto non è il bigliettino. Il punto è lo scompiglio che tutto ‘sto sistema finisce col creare.

Tralasciamo per un momento che Ryanair manda cinquecentosette messaggi la settimana prima della partenza per ricordarti di compilare il questionario sanitario e che nonostante questo il 50% dei passeggeri non abbia idea che esista un questionario da compilare. Che viene da chiedersi come accidenti sia possibile continuare a guadagnare con l’email marketing. O se non sia il caso di cambiare le mie tecniche di copywriting per testi tipo: “Compra questo che è economico. Ciulli ciulli trallalà salsicce baccalà fiori di sambuco”. Tanto se leggono la prima riga è già un traguardo.

Tralasciamo anche che, nei suoi cinquecentosette messaggi, Ryanair consiglia di presentarsi in aeroporto due ore e mezza prima del volo “per agevolare i controlli”, e il check in - dove, a Treviso, si svolgono (inspiegabilmente) i controlli - apre meno di due ore prima. A questo punto potrebbero almeno affiggere all’entrata un cartello illustrativo delle diverse tecniche di harakiri che si possono utilizzare quando si è costretti a passare un’ora in una stanza con un tabacchino, due bagni e 4 posti a sedere. 

Stendiamo pure un velo pietoso sul fatto che venga affidato ad una sola persona il compito di controllare i qr di centinaia di passeggeri indemoniati: ci vuole almeno mezz’ora prima che qualche illuminato si renda conto che forse, ma proprio forse, sarebbe il caso di aprire altre due o tre file, per poter riuscire a verificare i documenti di tutti prima che l’aereo decolli. 


Il punto è che quest’organizzazione ha avuto l’unico effetto di creare assembramenti innecessari e facilmente evitabili, non solo aumentando il livello di stress generale, ma anche dando vita a possibili focolai di contagio. Perchè, non dimentichiamolo: il vaccino non evita che tu ti prenda il virus, evita che tu abbia sintomi gravi e finisca in ospedale quando te lo prendi. 

In tal senso, la situazione dopo i controlli di sicurezza non migliora. Dei due bar di cui dispone Treviso, è aperto solo uno, che finisce inevitabilmente preso d’assalto da mandrie di viaggiatori affamati. I posti a sedere - che già erano pochi di per sè - sono dimezzati da un ultimo, stoico, tentativo di mantenere le distanze sociali.

E il miglior modo di trasformare l’uomo in bestia - credetemi - è impedirgli di appoggiare il culo su una sedia. Immagino non ci siano voluti neanche cinque secondi prima che si trovasse una soluzione al problema. Qualcuno, più anarchico, l’ha fatto sradicando i cartelli “vietato sedersi” dai posti bloccati. Altri, sbrigativi, hanno optato per sedersi per terra (ovviamente appiccicati gli uni agli altri). Altri ancora hanno deciso che tanto valeva iniziare a mettersi in fila per l’imbarco - con buona pace delle cinquecentosette email in cui RyanAir intima di non farlo finchè non viene aperto il gate. Sul serio, il copywriter di Ryanair mi fa tenerezza.

Mentre cerco un cestino in cui gettare l’immondizia, mi cade l’occhio su un ragazzo addormentato che, in assenza degli strumenti adatti, ha pensato bene di togliersi la mascherina chirurgica per usarla come copriocchi.

Ve lo dico con tutto l’amore del mondo, e con tutta la mia profonda felicità per le riprese dei voli diretti Málaga- Treviso: se non siete attrezzati per garantire quel minimo di norme igieniche necessarie in tempi di pandemia, continuate ad operare su Venezia Marco Polo come si faceva fino a poco tempo fa. O ancora meglio (per me, ovviamente):  sfruttate l’aeroporto di Trieste, che è esageratamente grande per i due voli in croce che ha.

Comunque sia fate qualcosa, perchè il commento “viaggiare così è un incubo” è quello che ho ascoltato più spesso, in due lingue, al rientro dalle mie vacanze italiane.


giovedì 24 giugno 2021

La notte della magia.

Questa notte il mare si è vestito per le grandi occasioni. Sfoggia un abito blu scuro con le pailettes, tipo quello che ho cercato invano di creare con Clo3D.



Ché non lo so nemmeno io, perchè mi perdo con certe cose. Insomma, mi ci vedete a disegnare moda? Come se non avessi di meglio da fare. Mi affaccio al balcone con gli occhi arrossati da una settimana da invasata completa. 

Ogni sera, alle sette in punto, chiudevo il mio ufficio virtuale con grafica da videogioco anni ‘80 per mettermi a guardare tutorial in inglese che spiegassero come accidenti attaccare le balze alla gonna dell’avatar. Senza nessuna ragione apparente, e ancora meno necessità professionali.

Forse sto impazzendo. Forse è il balletto degli ormoni del pre-ciclo.
O magari è vero quello che ho letto da qualche parte, che la creatività è una necessità fisiologica. Tipo quando devi espellere liquidi in eccesso: se non sudi, fai pipì. Se non scrivi, dipingi. 


… O fai moda in 3D.

Male. 


A volte le parole fanno fatica a uscire, questo è. Passi otto ore al giorno davanti a un foglio bianco, spremendoti il cervello per trovare le migliori.
E poi ne passi altre due a leggere libri che ti spieghino come metterle nell’ordine giusto.
E poi altre due ancora ad ascoltare gente che ti parla di altra gente che le ha disposte in modo da indurre altra gente a fare qualcosa. Comprare, per lo più. Emozionarsi, ogni tanto.

In fondo il mio mestiere (il mio bellissimo mestiere!) consiste nell’arredare risme di carta impalpabile con mobili già usati da milioni di altre persone… e nonostante questo, cercare di creare un ambiente unico. Mi riesce bene, dicono, ogni tanto. “É quello che sai fare meglio”, mi hanno detto l’altro giorno. Ed é stato come se mi avesse colpita un asteroide in piena faccia. Grande almeno quanto quello che ha estinto i dinosauri. Perché quello che “so fare meglio” sentivo di non riuscire a farlo più. E allora cosa resta di me?

É che arriva un momento, ogni tanto, in cui i neuroni si stancano di trascinare costantemente call to action per le scale, come Ross con il divano in quella puntata mitica di Friends.  Stremati dallo sforzo costante - Piiiivooooot - si accasciano sulla prima superficie morbida e non si rialzano più.

Pare quasi di sentirli: “Come sarebbe a dire che vorresti scrivere? Ancooora? PerPiacerePerPiacere, no. Pietà, per Dio! Lasciaci in pace”. E allora ecco che rimpiazzo le mille idee per i blog con cartamodelli dalle proporzioni sbagliate, in preda ai sensi di colpa di chi sente di tradire il Grande Amore della Vita per un tizio col Q.I di un armadillo. 


Ma questa non è una notte tra le tante. Non lo è mai, San Juan.

La Luna è un riflettore enorme puntato sui drappeggi da red carpet dell’unica Vera Diva. Miss Mediterraneo. Il mare è donna, dai, oggi si vede.

Sulla spiaggia deserta, sei piani più in basso, le volanti della polizia l’illuminano a fasi alterne. Riflettori azzurrognoli in cerca di trasgressori che bevono birra attorno a un falò. Ne trovano due, verso mezzanotte, colpevoli di passeggiare mano nella mano troppo vicini alla riva. Una conversazione immaginata da lontano, forse una multa. Li vedo tornare da dove sono venuti.


Sono passate sedici ore, e inizia a farmi male il braccio. 


La prima dose di Pfizer nelle vene mi ha lasciato addosso un intontimento quasi piacevole, simile a quello che ti invade dopo qualche chupito. Ho postato la foto di rito, quella che sancisce il primo passo verso una vita un po’ più simile a “prima”. Quella che presagisce concerti, viaggi senza più paletti nel naso, aria pura senza l’odore di plastica della mascherina nuova.

L’estate del 2021 profuma di ottimismo. E l’unico desiderio che avrei voluto esprimere nella notte di San Juan è, in fondo, che quest’ottimismo sia fondato.

Invece, come sempre, ho messo nero su bianco tre speranze più concrete. Le candele accese sul terrazzo tingevano di tonalitá calde la sagoma del mio ragazzo mentre una carrellata di ricordi in ordine cronologico mi dipingeva  un mezzo sorriso sul volto.

La Misericordia nel 2019.
L’appartamento del lockdown nel 2020.
La terrazza della nostra casa nuova nel 2021.

Posti diversi, vite diverse, e tre sole costanti: noi due, Málaga e le fiamme che consumano biglietti scritti a mano.

“Non hai anche tu la sensazione che sia una notte speciale?”
“Ma se è dalle dieci che non dico altro! Però ora entriamo, eh? Che mi stanno massacrando le zanzare” 


Verso l’una di notte, con la volante ormai lontana, un ragazzo accendeva una lanterna giapponese nascosto dietro al bidone della spazzatura. Pochi metri più in là, due persone appena distinguibili nel buio si guardavano attorno furtive prima di immergere i piedi in mare.

Perchè, nonostante tutto e in barba a tutti i divieti, l’essere umano ha bisogno di aggrapparsi alla magia.

La notte di San Juan ho dormito profondamente, sotto una Luna Piena più luminosa del solito. Poi mi sono svegliata. E all’improvviso, dopo tanto, ho avuto di nuovo voglia di scrivere. 


 



mercoledì 30 dicembre 2020

Cose belle del 2020 (sì, ci sono state)

Foto: Pexels



Prima di lui vidi la valigia.

Un trolley bordeaux riempito di pochi abiti stropicciati presi a caso dall’armadio.
Lo fece rotolare fino al centro della stanza, il respiro affannato di chi ha accelerato il passo per non varcare i confini dell’illegalità. 

Poi mi strinse forte.
Era la sera del nostro primo anniversario. La stanza profumava di lasagna. E in quel preciso istante capii, per la prima volta, il significato della parola “gratitudine”.

Mancava ormai poco a mezzanotte, l’ora in cui sarebbe entrato in vigore il lockdown. 


Per lui non si trattava di arrivare tardi ad una cena. Si trattava di scegliere dove e con chi passare i prossimi tre mesi.

In un appartamento spazioso a pochi metri dal mare o in un buco di 30 metri quadrati con vista sul bidone della spazzatura. Con la famiglia o con una tizia isterica che da giorni non faceva altro che piangere leggendo le notizie sui social. 


“Dato che il posto è piccolo potremmo cambiare di tanto in tanto la disposizione dei mobili” - mi disse - “Fare i turni per la spesa così prendiamo aria. Fare esercizio con i video di youtube”. E il sottotesto era che (povero pazzo!) aveva davvero scelto me. 

Seguì una quarantena di ferias improvvisate, performance sonore coi bicchieri di vetro, canzoni giapponesi, cibo a domicilio, zumba, netflix e risate. Tante. Io ho imparato ad accettare il suo disordine, lui s’è rassegnato al mio essere scontrosa quando scrivo.  Ci sono cresciuti i capelli e - nel mio caso - il diametro del sedere. E mentre il mondo, fuori, impazziva, siamo riusciti addirittura ad essere felici.

I tre mesi sono diventati sei. Poi nove. Poi la ricerca di una casa più grande mentre un gatto randagio ci si struscia sulle gambe dandoci il benvenuto nel quartiere.

Il 2020 è stato orribile, non mentiamoci.
Ma è stato anche l’anno in cui ho iniziato a convivere.

E convivere, in qualche strano modo, mi ha aiutata a trovare l’equilibrio. A riprendere a leggere. A chiudere il computer dopo 8 ore di lavoro. A smettere di andare a letto alle 2 del mattino.

Ho affrontato tante cose da sola.
Da sola mi sono trasferita in un Paese straniero.
Da sola mi sono trovata un posto in cui vivere, un lavoro, degli amici. Da sola ho sopportato influenze, mal di stomaco, lutti, addii, inganni e delusioni.

Ma una pandemia, no, quella sarebbe stata troppo. 


Sarei impazzita. Ne sono sicura. 


Me ne rendo conto ogni volta in cui mi stresso per una sciocchezza e lui con un’uscita improbabile mi calma meglio e più in fretta di un sedativo.

Per questo dico che non tutto è da buttare.

Di fatto, di quest’anno ignobile, ho un altro buon pugno di momenti da salvare.

Per esempio, la cena al buio nel ristorante gestito da non vedenti a Barcellona. Indovinare il colore del vino che mi stavano servendo, non capire chi avessi accanto, soffermarsi sui sapori di pietanze da mangiare con le mani.

Il Red Carpet dei Goya. Il mio primo evento di moda flamenca con l’accredito di rivista specializzata nel settore. L’orgoglio del cartellino con sú scritto prensa e un hotel a cinque stelle in cui sognare di volant.



L’escursione con gli amici a Nerja e Frigiliana. La mia prima (e unica) serata di poesia dal vivo. La banda che suona la musica di Chorus Line in plaza de la Constitución mentre esterno il mio entusiasmo in un vocale. Salire sul tetto della Cattedrale e silenziare le notifiche per fingere che il virus non sia già attorno a noi.


E ancora, il primo giorno in cui siamo potuti uscire e il Parco di San Miguel ci sembrava il Paradiso. La piscina della casa rurale di Frigiliana nel giorno più caldo dell’estate. Ricongiungermi coi miei a Venezia in una giornata che così limpida sarebbe stata difficile anche solo da immaginare.







Poi le ventiquattro ore da vip per Esperienza Spagna. Il relax ai Bagni Arabi. Le tante escursioni in catamarano al tramonto - compresa quella in cui ho perso una scarpa pur di riuscirmi a imbarcare.


Per non parlare del weekend romantico a Tarifa. Truccarsi di tutto punto per passare Hallowen seduta sul divano. Le fughe nella natura e il pranzo al sacco sul Gibralfaro ( "Stiamo creando le nostre proprie tradizioni!"). La vigilia alla spagnola.

Il primo gennaio del 2020, ubriaca sul divano, dichiaravo che quest’anno mi faceva paura. Che mi trasmetteva brutte sensazioni. Che per una mia legge personale che ho sempre visto rispettarsi, a un’annata buona ne segue inevitabilmente una cattiva. Il 2019 era stato troppo troppo perfetto per non far presagire il peggio. Sentivo che il pungiglione liquido di una lacrima iniziava a perforarmi l’iride. Esagerata, dicevo a me stessa. E davo la colpa al vino.

Oggi penso al 2021 con un senso di tranquillità. Perchè a quella legge, adesso, voglio credere più che mai. Ho bisogno di farlo. Ho bisogno di convincermi, come convinta ero delle premonizioni fatte su quel divano, che piano piano, a fatica, questa volta andrà davvero “tutto bene”. 





P.S: Subito dopo aver scritto questo post ho avuto un incidente da idiota con il minipimer, ho passato la serata in pronto soccorso e ne sono uscita con 3 punti su un dito. COSA ACCIDENTI STATE CERCANDO DI DIRMI?

mercoledì 2 dicembre 2020

Lezioni di scrittura da Stephen King

Il bello di avere un blog personale é che ogni tanto ti puoi permettere anche di andare fuori tema. Perciò vi chiedo scusa, se siete approdati da queste parti cercando qualcosa che riguardi la Spagna.
Navigate pure tra i post precedenti e sentitevi autorizzati a saltare questo a piè pari.

Qui mi rivolgo soprattutto a chi scrive, non importa se per mestiere o meno.
Magari un pochino anche a chi vuole farsi i fatti miei, sia pure solo per sapere che volumi sto accumulando sul comodino.

Il punto è che ci sono libri che ti aprono la mente.

A volte ti fanno riflettere su qualcosa a cui non ti eri mai degnato di prestare attenzione. Altre risvegliano interessi che non sapevi di avere. Alcuni (i migliori) ti aiutano persino a migliorare in ciò che fai. In genere sono loro a trovarti e, se ti capita la botta di culo, lo fanno proprio quando iniziavi ad adagiarti in una (s)comoda routine.

On Writing di Stephen King, per me, rientra nell’ultima categoria. A metà tra l’autobiografia e la saggistica, è il primo e fino ad ora unico manuale di scrittura che mi abbia catturata sin dalla primissima pagina.

Non che ogni parola mi sia esplosa in testa come una rivelazione.  Anzi. Alcuni dei consigli dell’autore mi sono sembrati addirittura “scontati”: probabilmente perchè si rivolgono a chi sta iniziando a scrivere, ed io (bene o male) non faccio altro da quasi trent’anni.

E poi King parla di narrativa.

Io mi sono formata come giornalista, faccio la copywriter e proprio al massimo aggiorno un blog: nel 90% dei casi, i miei obiettivi sono molto diversi dai suoi.

Anche così, ho estratto da quel libro alcune perle (sei, per l’esattezza) che mi hanno spinta a soffermarmi su diversi aspetti della mia prosa.

É per questo che le voglio condividere qui. 

Per non dimenticarle. Per lanciarle al mondo nella speranza che siano d’aiuto.

Da quando ho finito On Writing, è come se una vocina insistente me le sussurrasse nelle orecchie ogni volta che butto giù un copione, un’email, un articolo o addirittura il testo di una pubblicità per Facebook (nella lista della spesa non si é ancora intromessa).

Sono consigli semplici, certo. Eppure sono convinta che possano migliorare lo stile di chiunque scriva; non importa se lo fa per vendere, per intrattenere o per informare.

Perchè vedete: il problema, quando ti occupi di una cosa da tanto, è che a volte finisci per dimenticarti come si cominciava. Ripassare le basi è, invece, tanto raro quanto obiettivamente vitale.

Suonerà strano, ma mi auguro sentiate le voci 
anche voi.


























LEZIONE #1 - METTETE LA SCRIVANIA IN UN ANGOLINO




Vi servirà a ricordare in un colpo d’occhio il ruolo che dovrebbe avere la scrittura per voi: Sempre e comunque marginale.

Secondo King la vita non dev’essere di supporto alla creatività, ma viceversa. In effetti, questo è anche uno dei motivi per cui condanna la classica americanata dei camping immersivi di scrittura. Non puoi produrre niente di buono - dice - se ogni giorno la tua principale e unica missione è scrivere.

Lo so, può sembrare contraddittorio.
Potreste anche obiettare che è un po’ difficile non mettere la scrittura al centro quando ci devi pagare le bollette. Ricordate, però, che è un lavoro anche per Stephen King.

Certo, lui guadagna di più con un solo libro di quanto noi comuni mortali incasseremo in tutta la nostra vita. Ed è vero: se di punto in bianco esaurisse l’ispirazione, potrebbe campare di rendita da qui al resto dei suoi giorni. Però non è stato sempre così. La gavetta l’ha fatta anche lui. Le incertezze le ha avute anche lui. Di fatto, ‘sta cosa della scrivania l’ha capita dopo essere caduto nelle droghe. Non si voleva disintossicare perchè temeva che le idee gli venissero dalle sostanze che prendeva (visto quello che scrive, avrei pensato lo stesso) e che nel momento in cui l’avesse fatto si sarebbe giocato la carriera.

Ecco cosa significa mettere la scrittura al centro: sacrificare in suo nome salute, famiglia e relazioni personali. Ne vale la pena? Io direi di no.

A conti fatti, è tutta questione di mentalità.
Si tratta di non darle tanta importanza. Di ridurre lo stress, se preferite. 


C’è stato un periodo in cui credevo che il mio impiego come copywriter fosse temporaneo. Accarezzavo segretamente l’idea di aprire un negozio di souvenir d’arte in centro a Málaga, e non mi preoccupava più di tanto l’eventualità che mi licenziassero. Avevo un piano B.

Un’altra volta ho aperto LinkedIn e ho trovato 3 offerte di lavoro diverse nei messaggi privati. Tutte nel mio settore. Tutte apparentemente valide. Tutte che mi chiedevano la disponibilità per un colloquio. Mi sono tranquillizzata, pensando fosse una chiara dimostrazione del fatto che, se anche avessi perso il mio posto, ne avrei trovato un altro in fretta.

Saranno state coincidenze, ma nel primo caso ho ottenuto una promozione e nel secondo un aumento di stipendio.

Poi ho deciso di cambiare casa, e mi sono resa conto che per il tipo di appartamento che volevo mi serviva assolutamente il salario che prendevo. Non potevo scendere da quella cifra. Mi sono anche accorta che il mio lavoro mi piace un sacco, e che vado d’accordo con i colleghi. Insomma: ho iniziato a preoccuparmi seriamente per l’eventualità di esserne privata. Non volevo rinunciare ad una casa più grande e ad una situazione obiettivamente privilegiata.

Allora ho iniziato a sfacchinare come non mai. A fare straordinari. A finire un’email la domenica alle 22 per “portarmi avanti” sul lavoro del Lunedì. A metterci tre ore per scrivere un copy che normalmente non mi avrebbe portato via più di mezzora, solo perché ci tenevo che fosse perfetto. Ci ho rimesso un sacco di capelli per lo stress, e non ho avuto né aumenti né applausi. Di fatto, i testi che ho scritto in quel periodo non sono neanche lontanamente al livello di quelli scritti quando non me ne fregava un granché.

Insomma, la chiave sta nel ricordarsi che in ogni caso mettere in fila parole è solo una professione. Solo una delle tante cose che fai nella tua quotidianità e senza la quale la gente vivrebbe e procreerebbe comunque.

Si dice che ciò di cui più si pentono le persone in punto di morte è di aver lavorato troppo e di non aver passato più tempo con i loro cari. Quindi ricordiamocelo: per quanto possa essere importante arrivare a tempo ad una consegna, non sarà mai importante come passare la serata guardando un film col tuo partner, giocando con tuo figlio o uscendo con i tuoi amici. MAI. Quello è la sala, la stanza. Una stanza enorme e ben illuminata.

La scrivania su cui scrivi è solo un mobile nell’angolino.







LEZIONE #2 - MORTE AI VERBI PASSIVI!




I verbi passivi, secondo King, bisognerebbe impararli a scuola e poi dimenticarli per sempre.

Quando l’ho letto, per poco non mi è sfuggito un urlo di approvazione. Finalmente qualcuno che lo dice! La forma al passivo, in generale, è IL MALE SUPREMO. 


Che senso ha dire “il cadavere è stato trascinato” quando puoi dire “qualcuno ha trascinato il cadavere”? Perchè complicarsi la vita? ‘Sto tizio è pure morto: secondo quale logica dovrebbe essere il soggetto della frase?

Ovviamente esistono le eccezioni. Per esempio, se un poliziotto sta indagando sull’omicidio e non sa ancora chi sia il colpevole, ci sta che, analizzando la scena del crimine, dica: “il cadavere è stato trascinato”.

Nella maggior parte dei casi, però, quando trovate un verbo al passivo in qualcosa che avete scritto, dovreste cercare di trovare un modo per volgerlo all’attivo. Non solo renderà di più, ma ci guadagnerete in specificità: regola aurea del copywriting e della scrittura in genere.

Pensate, per esempio, alla frase: “l’idea è considerata buona”. Magari potete migliorarla un po’ con il “si” passivante (L’idea si considera buona) ma il problema di fondo resta: CHI la considera buona? Se fate l’esercizio di mettere la frase all’attivo, dovrete per forza dire che qualcuno la considera una buona idea, e di conseguenza concentrarvi su chi è quel qualcuno.

Potrete scrivere che “La popolazione la considera una buona idea”, “La società occidentale la considera una buona idea” o che “mia madre la considera una buona idea”. In ogni caso, starete contestualizzando e specificando. Oltre al fatto non trascurabile che la frase suonerà mille volte meglio. 







LEZIONE #3 - RIDUCETE GLI AVVERBI




Nel mondo del copywriting ti insegnano a enfatizzare i concetti con aggettivi e avverbi piazzati in modo strategico: un “esclusivo”, un “nuovo” e un “eccezionalmente” non si negano a nessuno.

Il problema è che questo finisce col portarti ad “imbellettare” anche il linguaggio che utilizzi in altri ambiti; E il rischio diventa quello di esagerare.

Se hai impiegato 10 cartelle per descrivere il comportamento abituale di un personaggio, quando all’improvviso quel personaggio fa qualcosa di diverso, magari non sarà necessario aggiungere che lo fa “eccezionalmente”.

Se scegli bene le parole dei tuoi dialoghi, non ti servirà specificare che Paolo sostiene “gentilmente” o che Maria afferma “sdegnosamente”. Il tono si capisce. E, se non si capisce, hai sbagliato qualcosa.








LEZIONE #4 - SCRIVETE PER IL VOSTRO LETTORE IDEALE




Qui torniamo all’importanza di sentire le voci.
Tutti scriviamo per qualcuno. E, se non lo facciamo, dovremmo iniziare subito.

In genere viene spontaneo. Che tu lo voglia o meno, quando trasformi i tuoi pensieri in parole, inevitabilmente pensi alle sensazioni della prima persona a cui le farai leggere. Quella persona è il tuo Lettore Ideale, e secondo King riveste un ruolo fondamentale nel processo creativo. Nella nostra testa è il nostro primo giudice, ancora prima di diventarlo davvero.

Che sia nostro padre, il nostro partner la vicina del secondo piano, il Lettore Ideale è quasi sempre qualcuno che conosciamo molto bene. Conoscendolo, intuiamo come reagirà alle nostre parole nel momento stesso in cui le scriviamo. Sappiamo cosa lo farà sorridere. Cosa detesterà. Cosa riterrà superfluo. Nella maggior parte dei casi, questo ci porta ad aggiustare in corsa paragrafi cruciali. Pensare “uff, questo sicuramente il Lettore Ideale non lo capirà” ti porta a spiegarlo - il che lo renderà più comprensibile non solo a lui, ma al 90% della popolazione.


Se nella narrativa il Lettore Ideale può essere chiunque, sul lavoro, secondo me, dovrebbe essere il nostro responsabile diretto.

Prendetevi un po’ di tempo per leggere tutto quello che scrive. Cercate di individuare le formule e le strutture linguistiche che usa più spesso (tutti abbiamo degli amori sintattici, e in genere basta una lettura un po’ più attenta per capire quali sono). Alle riunioni, cercate di prestare attenzione al modo in cui parla. Invece di incazzarvi perché vi fa un appunto su un testo un po’ debole, ricordatevi quello che dice. Fate vostro il suo stile. Calatevi nei suoi panni. Se davvero amate scrivere, non dovrebbe risultarvi poi così difficile. 

Quando riuscirete a conoscere il vostro capo abbastanza da sentire la sua voce nella testa ogni volta che vi mettete al lavoro, probabilmente migliorerete la vostra scrittura. O, per lo meno, la migliorerete ai suoi occhi: il che, alla resa dei conti, è ciò che vi assicura uno stipendio. 








LEZIONE #5 - ABOLITE IL  “NON SO COME DIRE”



Quante volte inseriamo nelle nostre conversazioni quotidiane frasi tipo “non so come dire”, o “non so spiegartelo”?.

In On Writing, Stephen King afferma (in questo caso forse anche un po’ sdegnosamente) che dobbiamo eliminarle dal nostro vocabolario. Come scrittori - o scribacchini- il nostro lavoro consiste precisamente nel saper spiegare e nel saper dire. Se in un dialogo qualsiasi non siamo in grado di tradurre le nostre sensazioni in qualcosa di comprensibile per l’altro, come accidenti possiamo pensare di avere un futuro in questo mestiere?

Per quanto suoni un po’ brutale, questo concetto (che peraltro viene presentato en passant) è quello che più mi ha fatta riflettere di tutti quelli espressi nel libro. Mea culpa: il “non so come dire” io l’ho sempre usato tantissimo. Così ho iniziato a fare lo sforzo mentale di cercare, sempre, le parole giuste.


Quando mi chiedono “Perchè ti piace tanto Málaga?” In genere rispondo sempre “Non so spiegartelo, ha un certo non so che”. Oggi me l’hanno chiesto di nuovo.

Stavo per riciclare la risposta standard, ma poi ho pensato a Stephen King. Cosí mi sono morsa la lingua. Ho riflettuto 5 secondi . E mi sono lanciata in un monologo:

“Mi piace perchè pur essendo una grande città ha una dimensione umana. Ho la sensazione di poter arrivare da qualsiasi parte camminando, e questo mi da un senso di protezione. Perchè nel giro di pochi metri passi dalla spiaggia, alla storia alla modernità. Perché ha mille anime in una. Perché sono meteoropatica al di là di ogni immaginazione, e ho bisogno del cielo azzurro per sentirmi piena di energia. Perché la gente è aperta, ti guarda negli occhi quando cammini, dà la sensazione di preoccuparsi per te anche se non ti conosce affatto. E non importa se non è vero, fa comunque bene al cuore.”

Il mio interlocutore non sapeva più come fermarmi, e probabilmente si sarà annoiato a morte. Io, però, mi sono sentita scrittrice. 


Ve lo consiglio, davvero: provateci anche voi.







LEZIONE #6 - LASCIATE DECANTARE 




Premettendo che ogni scrittore ha le sue abitudini, Stephen King sostiene che è una buona pratica dimenticarsi completamente di un’opera di narrativa dopo aver ultimato la prima stesura. Per almeno 15 giorni consiglia di dedicarsi ad altro. Andar per funghi, fare immersioni, accamparvi all’Ikea, quello che vi pare. Ma non pensare, per niente al mondo, a quello che avete scritto. Chiudetelo in un cassetto. Magari iniziate un altro progetto.

In questo modo, quando riprenderete in mano la vostra opera per rivederla e correggerla, vi risulterà completamente estranea. Solo così potrete analizzarla a mente fredda, e riuscirete a migliorarla per davvero.

Un altro insegnamento importante che ho tratto dal capitolo sulle revisioni (e che, pur conoscendolo, avevo dimenticato) è che la seconda stesura dev’essere il 10% più corta della prima. Vale a dire che le revisioni devono sempre, sempre, sempre accorciare. MAI aggiungere.







Che ne pensate di queste sei lezioni? Vi sono sembrate utili o tutto il contrario? Se vi va, lasciate la vostra opinione nei commenti. Vi leggerò con piacere!