martedì 31 gennaio 2012

Olimpiadi 2020: i video delle candidature di Madrid e Roma a confronto.

Ora, io non é che voglio fare sempre l'anti-patriottica. Cioé, in realtá mi piacerebbe anche, poter dire che in qualcosa preferisco alla Spagna il mio Paese. Solo che, ecco: ho visto il video ufficiale della candidatura di Madrid alle Olimpiadi del 2020. Ed é bellissimo, davvero. Non ho altro da dire. La voce di una bimba racconta fuori campo tutto lo spirito della cittá. Il taglio del montaggio, veloce ma non troppo, ricorda lo stile delle campagne turistiche che da sempre mi emozionano in quei loro “I need Spain”. 

“Es una ciudad muy alegre”, dice quella bimba, “que contagia esa alegría a todo el que pase por aquí, que cuando viene ya no quiere marcharse”. E non potrebbe esistere presentazione migliore. 




E' per questo che, spinta dall'entusiasmo, ho scelto di cercare anche il clip di Roma. E giá il fatto che non abbia capito quale sia, decisamente non muove a italico favore. Sí, perché se digiti su youtube “video  candidatura Roma 2020” te ne saltano fuori almeno due diversi, senza che ti venga concesso di capire quale di questi sia l'ufficiale. Ed é vero: come  per Madrid, anche l'ambizione olimpica della nostra capitale vanta un suo canale apposito. Peccato che lí, nel luogo in cui sarebbe piú logico trovarlo, il promo non c'é per niente. Macché. Lí hanno spazio soltanto i filmati delle conferenze stampa e degli incontri istituzionali. Cosí, mentre Madrid2020 spopola sui social network, sospetto che per Roma il concetto di viralitá resti tristemente legato all'influenza di stagione. E intanto tu, che su queste cose hai pure scritto una tesi, contempli il triste vuoto di risposte mancate ogni volta che alleghi un curriculum alla mail. Perció sei giá incazzata. Un sacco. Per principio. Ma, a entrambi quei due video, decidi lo stesso di concedere il play. 

Ed é questo che ti trovi davanti. Il primo promette bene , a dirla tutta. Musica solenne, ritmo in crescendo, ricordi imperiali . Robe che inizia e pensi “che figata!”. Poi, peró, ti accorgi che, per tutti i quattro minuti e mezzo del filmato, non si vede altro che una mappa in cui sono riportate le singole locations romane. Una sorta di google earth continuo che alterna visioni dall'alto a qualche zoom. Non dev'essere quello giusto. Dev'essere una presentazione piú tecnico-logistica. Robe del genere. Comunque, una noia mortale. Giuro che, dopo trenta secondi, giá dormivo. 






Il secondo, viceversa, estende il concetto di uno slogan: “Una cittá che ha ospitato i Giochi, rimane una cittá olimpica per sempre”. Che, francamente, giá di per sé mi sembra controproducente. Voglio dire, perché dovresti puntare tutto solo ed esclusivamente sul tuo passato? Io non é che sia un'esperta in materia, per caritá, ma se aspiri ad ospitare un'Olimpiade non dovresti piuttosto dimostrare di essere una cittá all'avanguarda, in continuo divenire? Una cittá pronta, piuttosto, a costruire nuove strutture per adeguarsi ai tempi? Insomma, dai, candidarsi dicendo “me la merito perché l'ho giá avuta” é come per un cantante dire “mi merito il primo posto in classifica con il mio nuovo disco perché nel 1930 ho partecipato a Sanremo”. Con un lavoro totalmente diverso e in tempi totalmente diversi. Sul serio, io non lo capisco. Comunque: il video in questione non fa altro che riproporre immagini dell'olimpiade del 1960, senza regalare neanche un frammento d'immagine e spirito di quella che é la cittá oggi. Come se la perplessitá non fosse sufficiente, il logo in apertura cita a chiare lettere due date: 1960- 2010. Duemiladieci?!? Voglio dire vabbé che il video sará stato presentato in quell'anno lí (devo aver di nuovo sbagliato: sará quello vecchio, mannaggia!) ma...non ti rendi conto che il video di una candidatura per il 2020 dovrebbe poter e dover essere riproposto fino – appunto – al 2020 senza essere vincolato ad altre date? Non ti rendi conto che quell'accenno a dieci anni prima crea giusto un filino di confusione? Mah. 






Comunque, alla fine del mio giro virtuale (sempre piú incazzata), forse l'obiettivo lo centro pure. Nella descrizione, lo annunciano come lo spot vincitore di un concorso e pertanto destinato a rappresentare la candidatura romana. Per cui mi esalto. Penso "bene, dai, sono certa che questo non mi deluderá! Mi rimangeró la parola! Sará anche meglio di quello di Madrid". Poi premo play. E, forse saró tonta, ma vi giuro che non l'ho mica capito. 




lunedì 30 gennaio 2012

Un angolo di Andalucía nel centro di Vicenza.

Mezzogiorno, quasi in punto. Al centro di una cucina da sogno, le pentole giá covano pietanze che io, poi, non mangeró. La stanza é invasa da un compás di bulería: arriva dal portatile di Alice, e annuncia un video caricato su youtube. E' un ricordo dello spettacolo di ieri. Un ulteriore incremento di quest'assurda voglia di ballare. Non posso farci niente, é come un sorta di stimolo pavloviano. Ché qualcuno batte i piedi su assi di compensato e io farei lo stesso mentre passo il mocio a casa mia. Perché, andiamo! E' risaputo che non c'é pretesto migliore della pulizia dei pavimenti per improvvisare karaoke e coreografie. E poi il mocio é stato pure inventato in Spagna, per cui direi che sono in tema. No?





“Ila, un cucchiaino?”, dice intanto lei indicando zuccheriera e tazza di caffé.
Ombra di smarrimento sul mio volto assonnato.
“Uno sí, per mescolare”.

Eh beh.

Ma, insomma, capitemi: quei bicchieri di Pedro Ximenez mi hanno resa cosí felice da non ricordare come accidenti si scrivesse Hemingway. E a volte non c'é miglior riassunto di quello intrinseco in mattinate da coma. Ieri é stata una bella serata. Bella proprio. Bella come puó esserlo soltanto un angolo di Andalucía al centro di una Vicenza sottozero.




Che il Morao y Oro, lo spirito dei tablao, lo ricrea a perfezione. E parlo dei tablao autentici, lontani dalle richieste dei turisti. Parlo di quei posti piccoli e un po' tetri in cui il flamenco nasce e si esprime davvero. E non ci sono le lusinghe dei pois sui cartelloni. Via le distorsioni kitsch dei locali stereotipati. No. Qui, ci arrivi soltanto se conosci l'indirizzo. L'indecisione di una cartina mentale a guidarti verso una fioca luce viola al fondo di una strada stretta e poco illuminata. Una sola locandina affissa sul muro diroccato confermerá il benvenuto in quella che, da fuori, non sembra nient'altro che una vecchia casa.

“E' permesso?”, azzardo dopo il “clang” che m'apre il cancello dopo troppi tentativi. Un tamburellare sordo e ritmico di piedi si fonde a qualche accordo di chitarra. Una mostra fotografica decora le pareti di balze ed espressioni sofferte.

“Ah, ecco perché non sentivano il cellulare”. Mi dirigo a passo svelto verso una stanza sul retro, attirata da quei suoni famigliari. Un abbraccio a Paola, un caloroso ciao a tutti, o in bocca al lupo. E, sin dal primo istante, io mi sento a casa.




Poi non é soltanto per la musica. Non c'entrano le tapas- tutte fatte in casa- per quanto completino nel gusto l'atmosfera della mia serata ideale. Non c'entra neanche il vino, pensa te. Il fatto é che stare lí significa ricongiungersi con amici. Appoggiarne la coraggiosa iniziativa di inaugurare un posto come questo in una terra che, di per sé, non gli appartiene. Stare lí mi offre il pretesto perfetto per ritrovare un'altra blogger filoispanica. E parlare di film. Di viaggi. Di abitudini linguistiche. Di musiche e argomenti che, nel quotidiano, c'isolano dalla realtá socio-culturale a cui, malgrado tutto, apparteniamo. Che, in fondo, é pure questo il bello d'essere una nicchia. Che tra amanti sfegatati della Spagna, in qualche strano e tecnologico modo, si finisce per conoscerci un po' tutti.

Ci si legge sui rispettivi blog, per l'appunto. Si partecipa agli stessi concorsi. E assieme si tesse la rete perfetta. Maglie strette eppure confortanti, che giocoforza intrappolano in quel senso d'appartenenza che cercavi. Un po' come succede (ed é un insieme a intersezione) coi fanclub.

Mi sento a casa, anche perché la comitiva di Alice la conosco ora eppure mi sembra di farlo da sempre. Perché le relazioni che instauro si basano sempre su ció che dice la mia pelle. E per un fatto di pelle – o forse c'entra la cornice? - io con tutti loro mi sento sin dal primo istante a mio agio. Poi li guardo. Percepisco il loro entusiasmo di fronte a un mondo nuovo che li ha giá affascinati. Un mondo con regole proprie, uno di quelli che non puoi spiegare. Ascolto i loro applausi dopo quello spettacolo, e , per quanto sembri assurdo, sento montarmi dentro un orgoglioso senso di responsabilitá.

Perché il flamenco non é danza. Non é canto. Non é musica. Il flamenco é qualcosa che ti resta indifferente o ti travolge nella sua rabbiosa e scalmanata passionalitá. E' una dimensione fatta di pose dalle linee imperfette. Di movenze terrene. Di gente normale che non ha bisogno di rispondere a precisi canoni fisici o sorridere comunque solo perché sta sul palco. Gente che puó permettersi, anche su quel palco, di dialogare e sentre. Il flamenco un giorno é entrato, grazie a Dio, nella mia vita. E oggi mi compiaccio di averlo presentato, seppur indirettamente, anche a tutti loro.  

venerdì 27 gennaio 2012

Venerdí ...in cui brindare: Agua de Valencia per voi!


Un brindisi alla paura, finché rimane tale. Un brindisi ai preparativi del mio weekend fuori porta, flamenco e filoispanico come da copione. Para arriba, para abajo, para el centro y para adentro, come a suo tempo m'insegnarono in Andalucía. Sono qui, incastrata tra notizie di tendenze opposte. Sottofondo di una gatta testarda che cerca in ogni modo di infilarsi sotto al letto. E, per avere un quadro approssimativo della situazione, dovreste sapere che, sotto al mio letto, ce n'é un altro. Di quelli estraibili. Una coperta su di esso adagiata le rende l'accesso , francamente , impossibile. Eppure, niente. Lei continua imperterrita da ormai piú di mezz'ora, arrivando a spostare il tappeto, una sedia e due scarpiere ikea con la sola forza della sua determinazione. Se devo essere sincera, mi spaventa persino. Il terremoto, lei, mi sa che l'ha sentito davvero. E parlo di quello che oggi ha scosso il Nord Italia. Epicentro: la zona in cui studiavo. La terra in cui molti tra i miei amici vivono. Da lí, tutta la mia preoccupazione. All'altra sponda del suo fiume, la prospettiva vicentina dell'inaugurazione di un tablao. Papille gustative che pregustano il Tio Pepe. Nessun danno a cose e persone. Per questo,- Cin Cin!- oggi é il caso di bere.

Il cocktail di cui parlo, chiaramente Made in Spain, da noi lo conoscono in pochi. Si chiama Agua de Valencia, ed ha un sapore cosí buono e fruttato che é impossibile non trangugiarlo di gusto. Da lí, il fatto che l'alcol non tardi a far sentire i suoi effetti. E, come ovvia conseguenza, il mio consiglio di moderazione. Sí, insomma, é tosto. Quindi andateci piano.



Ecco la ricetta.


Agua de Valencia. (Ingredienti per 1 litro)

1 litro di succo di arancia.
1 bicchiere tipo "chupito" di cointreu (ma potete usare anche la vodka, se non volete che sia troppo dolce)
1 bottiglia di spumante o vino bianco simile allo spumante
Zucchero a gusto (anche qui, dipende se volete che il cocktail venga molto dolce o no).

Versate in una caraffa il vino e il cointreu (o la vodka). Aggiungete il succo di arancia. Due o tre cucchiaiate di zucchero. Mescolate bene.

E siete pronti a servire!

mercoledì 25 gennaio 2012

Jovanotti, Juanes e la salvaguardia dei duetti bilingui.



Quanto a collaborazioni, credo che Juanes si stia impegnando nel seguire le orme di Pittbull. La differenza é che lui mi sta simpatico – anche tanto!- perció lo si perdona. Ve ne parlo perché, ieri sera, un suo inaspettato duo con Jovanotti m'ha animato a tradimento twitter. E a me urge condividerlo. Sul serio: ne sento proprio la necessitá.

Il punto é che l'ho sempre detto, che l'italiano e lo spagnolo stanno bene assieme. Sono lingue di musicalitá affine, fatte apposta per fondersi dentro ad una stessa melodia. E' ora che l'industria ne prenda atto, una volta per tutte. Insomma, basta con le traduzioni ad ogni costo! Dico , ma a voi non viene un po' il magone quando sentite Jarabe de Palo cantare “come una Varca fata di carta”? E dire che io, l'accento iberico, lo trovo pure sexy. Peró nelle canzoni...non lo so, suona come superflua forzatura. Ché testo e musica si uniscono con il preciso scopo di trasmetterti qualcosa. Mettono in comunicazione il cuore di chi le ha scritte con qualsiasi sconosciuto che si conceda il lusso di riceverle nel suo. Ma se ti sforzi di cantarle in una lingua altrui, metti tra quei due cuori un ostacolo in piú. Io, per lo meno, lo vedo cosí. Forse l'ho anche giá scritto, non lo so. Sto maturando forme di alzehimer precoce, vi chiedo di pazientare.

Che poi, se si tratta di una canzone propria da esportare tale e quale, beh, posso pure capirlo. Il testo ha rilevanza, vuoi che venga recepito, é chiaro. Per cui magari non l'apprezzo al mille per mille, ma se una Pausini (tanto per dirne una) traduce i suoi stessi brani in castigliano, a me va piú che bene. Sí, insomma: un suo senso ce l'ha. Quello che non capisco, che non ho mai capito, sono le omologazioni dei duetti. Voglio dire: se un madrelingua italiano e un madrelingua spagnolo cantano assieme, per quale ragione logica dovrebbero farlo entrambi in una sola delle loro due lingue? Perché non possono, viceversa, esprimersi ciascuno nella sua? L'effetto ritmico non cambia. Il testo si capisce. E il risultato ci guadagna in naturalitá. Fissazioni mie, non ne dubito. Ma persino la bella “Para ti sería” cantata da Nek assieme a El Sueño de Morfeo l'avrei preferita in chiave piú internazionale.




Poi non escludo di aver riciclato queste mie annose riflessioni anche per colpa della radio. Sí, insomma, erretielle. Me ne stavo tranquilla, pensando ai fatti miei, quando le sue frequenze mi hanno riproposto “Qualcosa di grande”, dei Lúnapop. Ora, tralasciando il fatto che non riesco piú a non percepirla come una sottospecie di accusa personale, m'ha fatto tornare in mente la pronuncia di Cremonini nella versione spagnola. Cosí ho pensato a cosa mai succederebbe se il famoso “a ver si lo consigues” rendesse veramente il mio sogno realtá. Sono partita per uno dei miei famigerati voli pindarici. E ho deglutito in modo sonoro.





Onestamente, non sarei in grado di ascoltare “Mira La Vida” cantata in spagnolo da Cesare. Come non sarei in grado di ascoltare, chessó, “Il Pagliaccio” cantata in italiano da Dani. Non potrei, e basta. Non senza ridere. Viceversa, non smetto di pensare a quanto sarebbe assolutamente perfetta “Mira La Vida” cantata un po' in castigliano e un po' in italiano, assieme, da quei due. Guarda la vita come torna e ti sorprendeeee (ohohooooh!) Non smetto di pensare che Il Pagliaccio, in metrica, si adatterebbe a intarsi in castigliano. Y en el espejo , del camerino...(vamonooos!) Si, insomma, ecco: magari ho anche i miei leggeri motivi personali, ma resta il fatto che il duetto di Jovanotti e Juanes capita a fagiolo per corroborare in buonumore la mia tesi. #Italospagnolismi, sempre. Come l'hashtag che ho inventato per me.






Tra parentesi, ora che ci penso, si potrebbe anche fare un gioco. Voi quale cantante spagnolo (o latinoamericano, va, ve lo concedo) e quale cantante italiano vedreste bene in un duetto bilingue? Sbizzarritevi!

martedì 24 gennaio 2012

A proposito del SOPA ,musicalmente parlando.

Non entreró nel merito di tutta la questione. Non adesso, per lo meno: discorso troppo lungo per un' overdose di idee creative. Una cosa, peró, la voglio dire.

Spendo all'incirca il novanta per cento di tutti i miei risparmi in musica. Di quel novanta per cento, buona parte é dedicata a quella dei miei tre beneamini. E parlo di concerti. Dischi. Dvd. Parlo anche di surplus nelle spese di invio. Tutto perché credo che l'emozione sia anche odori e forme. Tutto perché sono diventati parte della mia vita. Tutto, rigorosamente, originale.

Ora: io, El Canto del Loco, se non fosse stato per Internet (sia pur per una radio su internet) non li avrei mai conosciuti. E, come ovvia conseguenza, nemmeno Dani Martín, El Pescao, Belgrado. Se questa meravigliosa invenzione non avesse finalmente abbattuto le frontiere, sia loro che la Sony avrebbero al giorno d'oggi un po' di guadagni in meno. E allora lasciamo stare, per il momento, tutte le ulteriori, molteplici forme per solidificare una passione nell'era 2.0 . Lasciamo stare forum e social networks, che ti mettono in contatto con qualcuno che la condivide. No. Oggi non parlo dell'importanza che ha sentirsi parte di un gruppo, o scambiare opinioni con i compositori. Io questa volta mi limito al nocciolo. Al puro e inconfutabile concetto per cui, senza contenuti condivisi online, la musica rischia tristemente di tornare a restringere il suo bacino di diffusione.



Ché, parliamoci chiaro: io, megaupload, non lo usavo neppure. Eppure che succederebbe se, un domani, chiudessero anche youtube? Se facebook e twitter ci proibissero, di botto, di esclamare entusiasmo condividendo un link?

Per difficile che sia, ogni crisi é una sfida. E allora, dico io, mettiamoci di buzzo buono e cerchiamo una soluzione. Sensibilizziamo la popolazione. Studiamo sistemi alternativi di streaming e download legale. Che ne so, troviamo un modo perché quelli illegali esasperino in lentezza o pecchino di qualitá, cosí da giustificare ulteriormente la scelta degli altri. Pensiamoci. Mettiamoci seduti in una stanzina, spremiamoci le meningi, e – per Dio- inventiamoci qualcosa.

Peró, vi prego, non imponiamo la censura anche all'unico posto in cui la democrazia é sempre stata totale. E non torniamo indietro, soprattutto. Perché il mondo é cambiato. La mentalitá é cambiata. Non torniamo indietro, perché ormai non si puó piú.

SOPA o non SOPA, io vorrei soltanto che anche altri continuassero ad avere la possibilitá che ho avuto io. La possibilitá di scegliere, cioé. Scegliere, nell'infinito campionario mondiale, l'emozione in cui investire il proprio denaro. Di trovare l'anima gemella musicale al di lá dei confini imposti di un mercato. Perché per una passione – ne sono esempio vivente- spendi eccome. Prima,peró, la devi pur sempre e comunque trovare.

Meglio questa, di sopa, fidatevi di me:







lunedì 23 gennaio 2012

"Spagnoli, e italiani": quando un vecchio articolo puó dire ancora la veritá.



Se la data d'archivio non inganna io, all'epoca, nemmeno esistevo. Eppure, quel 28 Marzo del 1984, Juan Arias scriveva giá per El País il tipo di articolo che, neanche troppi anni dopo, avrebbe motivato un'iscrizione a giornalismo. Era un'analisi lucida, splendidamente scritta, che senza paura attraversava i confini di sociologia e linguistica. Una di quelle che, in sostanza, sarebbe sempre piaciuto redigere a me.

Ve ne parlo perché soltanto ieri un amico l'ha pubblicata sulla schermata di facebook. Io la data, lí per lí, non l'avevo vista neppure. Non che dovrei stupirmene, d'altronde: l'attualitá delle osservazioni , nel bene e nel male, é perenne. E qualunque italiano che si sia trovato a vivere in Spagna, o a vedersi dall'esterno nella cornice di un qualsiasi Paese straniero – ne sono certa – le condividerá. Lui, Arias, le muoveva dalla prospettiva opposta. Un “figlio di Cervantes” , come lui si definisce, catapultato nella terra di Dante, a chiedersi se davvero i nostri popoli abbiano poi cosí tanto in comune.

Oggi, quell'articolo, mi permetto di tradurlo. Perché nel 1984, anno in cui io nascevo, nascondeva giá l'essenza di questo mio blog. Lo traduco perché, ventisette anni dopo la sua stesura, le tecnologie hanno abbattuto i confini. E anche l'altro protagonista del confronto, al di lá dei limiti linguistici, merita di condividerne le riflessioni. Buona lettura, perció.



Spagnoli, e Italiani.
(testo originale: Juan Arias. Link, qui. )

E' vero che Spagna e Italia sono due Paesi cosí simili? Cosí pensano in tanti. Da parte mia, dopo aver passato quasi la metá della vita in Italia, sono ogni giorno piú convinto che, al contrario, siamo due popoli profondamente diversi. Quasi in tutto, ad eccezione del sole, delle arance e dell'olio, magnifici, tra l'altro, in entrambi i Paesi.



Quel che inganna molti , come un miraggio, é la simpatia e attrazione quasi istintiva tra i figli di Dante e di Cervantes. Ma potrebbe perfettamente essere che il motivo di tale attrazione consista proprio in questa diversitá che ci contraddistingue. A prova dell'attrazione reciproca si é soliti allegare il fatto che siamo entrambi popoli latini. Ma latini sono anche i francesi, e non é lo stesso. Oppure che siamo mediterranei, ma figlia di quel mare é anche la Grecia, e anche con tale Paese le cose sono diverse. Ma, fatta eccezione per questa curiosa attrazione che potrebbe avere come spiegazione una virtú comune, quella di saper accogliere gli altri, per il resto siamo due Paesi molto diversi.

Si é arrivati a credere che spagnoli e italiani si capiscano immediatamente senza aver prima studiato le rispettive lingue. Niente di piú falso. Sono due lingue che non si possono capire, né tanto meno parlare, se non si studiano a fondo. Infatti, tutti gli uomini politici di entrambi i Paesi finiscono col ricorrere all'aiuto dell'interprete.

Un'altra cosa che puó trarre in inganno é che l'Italia é forse l'unico Paese al mondo con simile capacitá di accettazione e cosí scarsi sentimenti sciovinisti che basta che tu sappia dieci parole della sua lingua perché si complimentino con te dicendoti che la parli divinamente. Ma le due lingue sono diverse come la gente che le parla. Una volta sono stato testimone, alla trattoria romana “La Toscana”, accanto alla fontana di Trevi, di qualcosa di molto curioso e sintomatico. Uno spagnolo appena arrivato dalla Francia si lamentava del carattere antipatico dei francesi, e mi diceva: “qui sí che si sta bene, ti capisci subito con la gente”. E ha mantenuto una lunga conversazione con un cameriere, tra risate e pacche sulle spalle e scambio di foto e di segni. Ma la cosa di cui non si sono resi conto é che per tutto il tempo lo spagnolo parlava di un argomento, e il cameriere di tutt'un altro. Capirsi neanche per sbaglio, ma sono usciti convinti di aver parlato della stessa cosa. Se Camilo José Cela ha potuto dire poco tempo fa a Roma che il castigliano é come “un toro furioso”, l'italiano é a mille lingue di distanza da tale furore taurino, dato che ricorda piuttosto il gioco divertito di un agnellino in campagna.



Ci sono parole spagnole che agli italiani suonano come frustate, cominciando da cabrón. Che tragedia, per un italiano, la jota o la ge, o la zeta. Ho amici che da quindici anni continuano a chiamarmi Kuan. Immaginate se mi chiamassi Jorge. Ci sono parole come cincel, o zancajear, o zurriagazo, che sembrano cinese quando le pronuncia un italiano, cosí com'é quasi impossibile che uno spagnolo riesca a pronunciare correttamente il nome del grande scrittore siciliano Sciascia. Inoltre, l'italiano usa infinitamente piú di noi la metafora, la metonimia, l'eufemismo e qualunque tipo di figura retorica. Gli italiani non sono mai linguisticamente cosí drastici come gli spagnoli quando devono offendere, o difendersi, o dare ordini o condannare.

Ma non é solo la lingua. Lo spagnolo é radicale e drastico quasi in tutto: atteggiamenti, espressioni...L'italiano é possibilista e conciliatore. Lo spagnolo si spezza, l'italiano si piega. Il carattere ispano é fatto di acciaio ; l'italiano, di gomma. Qui la gente litiga con le mani aperte e, tra di noi, con i pugni chiusi. L'Italia é il Paese della diplomazia. Quella vaticana é nata qui é continua ad essere insuperabile. In essa si insegna che nessun e nessun no devono mai essere tali in modo definitivo. Per questo, per un italiano tutto é possibile e non esistono strade senza ritorno. Non c'é per loro, legge senza escamotaggio, anche se sono stati i creatori del Diritto. E' un popolo che malsopporta la legge, e finisce col crearsela a sua misura. Quando si impiantó la tassa sul valore aggiunto (IVA), in meno di un mese era giá uscito un libretto che si intitolava “I 100 modi per non pagare l'Iva”. L'italiano non sopporta le file né la disciplina e, quando puó, si intrufola. E quest'astuzia ha giá un nome all'estero, dove si chiama agire “all'italiana”.

Lo spagnolo é passionale; l'italiano, sentimentale. Don Chisciotte non avrebbe potuto essere generato a Roma, a Napoli o a Firenze, anche se Cervantes conobbe e viaggió per questo Paese.

L'eroismo, come concetto, non é italiano. Gli eroi in questo Paese sono sempre soggetti individuali, per quanto molto numerosi nella sua storia. Né il dogmatismo né il fanatismo, e tantomeno l'intransigenza o il nazionalismo sono frutti italiani.

Il maschilismo é spagnolo, mentre é italianissimo il mammismo. In Italia quasi tutto ha un certo strascico o sapore femminile, e i bambini sono sempre i re della combriccola. Qui l'arte ha genere femminile, e ci sono oggetti che in Spagna non potrebbero mai essere femminili, e qui lo sono , come l'auto o la grappa. Curiosamente, i fiori e il miele sono, invece, maschili. Dei fiori, un mio amico italiano mi disse che magari si deve al fatto che gli italiani li vedono come “gli organi sessuali delle piante”. E credo che lo siano.



Piacciono, in italiano, le forme sferiche, tipiche del genere femminile. Tonda é persino la pizza, e il quasi infinito numero dei suoi tipi di pasta. La palla, in italiano, é di genere femminile, e anche la squadra di calcio. E' molto femminile il desiderio innato di piacere che ha qualunque italiano. Per questo spremono la fantasia, e ne hanno un sacco, perché tutti rimangano contenti. Nei bar puoi ordinare il caffé in fino a 15 modi diversi. Al cinema c'é la poltrona e la poltronissima. E nel campo dei gelati diventa giá impossibile contarne le varietá. Ci sono addirittura semifreddi. E in nessun altro Paese d'Europa ci sono tanti partiti politici e con cosí tanti gruppi distinti all'interno di ciascuno di loro come in questo Paese. Qui ci devono essere sempre infinite possibilitá di tutto per tutti.



Ogni italiano si sente un artista, un poeta o un inventore. Credo sia il Paese con il maggior numero di cittadini che hanno pubblicato qualcosa nella loro vita, foss'anche pagandoselo di tasca propria. O che si vantano di aver inventato qualcosa, o che hanno cercato di dipingere qualche volta. E l'italiano medio ha un dominio della sua lingua di gran lunga superiore al nostro. Hanno nel sangue il senso dell'estetica, e lo riflettono finanche nella zuppa. La bellezza é l'unico dogma in un Paese che non ama le ideologie. E sono artisti nell'arte di uscire dal cammino prestabilito. La famosa economia sommersa, che sta salvando la crisi economica degli ultimi tempi, non é altro che uno sfoggio di ingenio creativo.

Senza fantasia, questo Paese sarebbe giá morto di fame. Perché é formato da gente che crede piú ai favori che alla giustizia, piú all'amico che allo Stato, piú alle raccomandazioni che al Governo. Cercano la raccomandazione anche tra i morti. E la morte é un altro abisso che separa i due popoli. Il “viva la morte” é la cosa meno italiana che si possa concepire. Qui nessuno drammatizza la morte, piuttosto la rimuove.

Il Venerdí Santo passa inosservato. A loro piace la Pasqua, la vita. C'é un culto incredibile per i morti, ma concepiti come vivi, come intercessori. Quando passa un carro funebre é facile che uno spagnolo si tolga il cappello o faccia il segno della croce. Qui é piú facile trovare qualcuno che fa gesti molto espressivi, come toccare ferro o legno, o altre cose. Qui non si nomina mai, nelle conversazioni o sulla stampa, la parola “cancro”, riferendosi a una persona malata. Si dice che tizio o caio stanno male. Si dice che stanno “poco bene”. Il mistico sfogo di Teresa di Avila “muoio perché non muoio” é quanto di piú lontano dalla spiritualitá di Francesco d'Assisi.

In un altro campo, l'invidia é tipicamente spagnola, mentre é italiana la gelosia. E gli psicologi conoscono benissimo la profonda differenza che separa questi due sentimenti.

Al contrario, l'onore, la cavalleria, la fede alla parola data sono virtú tipicamente spagnole, mentre é italiana la famosa furberia. Per loro, poter scavalcare impunemente una legge come toreri é, piú che un disonore, quasi un'azione eroica. Da lí la sfiducia del turista straniero quando arriva in Italia. Tutto ció é, probabilmente, il frutto di un'abilitá ancestrale di fronte al dominatore di turno. Qualcuno mi disse, una volta, che l'Italia é come una grande autostrada su cui é passato mezzo mondo a saccheggiarla, e che per questo sono stati arcuiti cosí tanto in questo Paese i meccanismi di difesa.

Come é molto italiano il non dire mai di no, in Spagna si dice “sí, señor”, in Italia “signorsí”, che é molto piú reverenziale. Cominciare dicendo “no” é, per un italiano, come confessare la propria impotenza. Se l'orgoglio é spagnolo, il desiderio di congratularsi con il prossimo, di conquistare piú amici, di aiutarti a uscire da un impiccio sono tutte qualitá molto italiane. C'é chi suppone che si tratti di una disponibilitá interessata, dato che gli italiani hanno, come carattere, una propensione congenita alla “mafiositá”, concepita peró nella sua accezione ancestrale di necessitá di protezione paterna che li difenda contro uno Stato che sente ostile. E', dicono, come se l'italiano percepisse in ogni favore fatto un amico o protettore potenziale. E' possibile. Ma, dopo tanti anni in Italia, confesso che se mi trovassi un giorno in un guaio vorrei avere un italiano accanto.



Con uno spagnolo mi sento piú sicuro, tuttavia, quando mi giura qualcosa. Della sua parola mi fido di piú. E' qualcosa per cui si dispiace e che invidia lo stesso italiano, che sogna per il suo Paese un supplemento di serietá, mentre credo che lo spagnolo adori, invece, quest'elasticitá congenita nell'italiano, per cui tutto finisce con l'aggiustarsi perché le parole “fine” o “impossibile” non appartengono alla sua cultura, dal momento che in questo Paese tutto puó ricominciare, e tutto puó diventare un miracolo. 

venerdì 20 gennaio 2012

Venerdí...Crema Catalana!

La causa era delle più valide. In fondo un viaggio scusa tutto, se la destinazione é soggetto del blog. Peró lo stesso mi spiace, di aver trascurato la rubrica di cucina. Per questo mi faccio perdonare con un dolce. Un punto a capo al retrogusto di cannella, che spezza la monotonia degli ultimi post. Un modo come un altro per esaltare la cittá da cui sono tornata, lasciando alle papille gustative l'arduo compito di voltar pagina. Oggi, ragazzi miei, si parla di crema catalana.



Ingredienti per 4 persone:

1 limone
200 g di zucchero semolato
sale
45 g maizena (amido di mais)
8 tuorli d'uova
1L di latte
1 stecca di cannella
zucchero di canna o zucchero a velo

Grattuggiate la scorza di mezzo limone. Versatela in una terrina assieme ai tuorli d'uovo, un pizzico di sale, la maizena e lo zucchero semolato. Sbattete il tutto con una frusta.
Mettete a scaldare il latte profumandolo con una stecca di cannella che toglierete quando sarà tiepido.

Versate il latte nel composto che avete fatto con le uova e gli altri ingredienti. Amalgamate bene il tutto con l'aiuto di un cucchiaio.

Mettete i
l tutto su fuoco moderato continuando a mescolarlo con un cucchiaio di legno.

Quando il latte bolle, spegnete il fuoco e versate la crema calda nelle tegliette da forno individuali. Lasciate raffreddare COMPLETAMENTE.

Prima di servire, spolverate la crema con lo zucchero di canna (o zucchero a velo) e passate ciascuna teglietta un attimo in forno, utilizzando la funzione grill.Se avete lo strumento per caramellare i dolci....ancora meglio! Anzi, se mai vorreste regalarmelo, sappiate che mi farete un favore: l'unica difficoltá che presenta la ricetta é proprio la caratteristica “bruciatura” superficiale.



Cronache catalane, ultima parte: partire, tornare.

Non era in programma, ritornare. Dico davvero. In fondo, in bilico su questa nube, ho giá visto i miei sogni farsi tutti realtá. E poi ho dormito poco, ieri notte. I dannati capelli restii ad asciugatura, appiccicati al calorifero nell'assenza di un phon. A quanto pare, ad ogni viaggio in Spagna, il tacito divieto al sonno vige ancora. Non era in programma, ad ogni modo. Proprio no.

E' solo che, vedete... non c'é spazio, tra la prima fila e il palco del Palau. Avevo i gomiti poggiati sullo stesso legno su cui Dani camminava. L'osservavo seguire le mie labbra mentre interpretava il testo di una sua canzone. E poi mi sorrideva. Poi sgranava gli occhi, divertito, in quel “cada día más flacos” che, seppur senza volerlo, sembrava consolare messaggi sui kili in piú. E' solo che, ecco: lui cantava, chinandosi su di me, quei 16 añitos che – in quanto ultimi – odio. Se avessi solo allungato una mano avrei potuto sfiorare le corde della chitarra che aveva imbracciato. E allora, dite, come faccio a lasciare che finisca tutto cosí? Sento l'adrenalina crollarmi in fondo all'anima, iniziando ad aprire il varco di una profonda malinconia. Per cui, no. Non posso permettere che il senso d'incompiuto vinca sulla mia sincera gioia. No, non esiste proprio. Io devo salutarlo, almeno.





Cosí, eccomi di nuovo su quello stesso divano. In quella stessa torre in vetro. Mentre, all'improvviso, mi viene in mente che non sia una buona idea. Questa volta, accanto a me e Celine, c'é solo Maricarmen. Provo ad autoconvincermi che lo faccio per lei. Lei che non c'era, ieri. E si risparmia l'obbligo di ordinare qualcosa grazie al via vai dell'ora di colazione. Attorno, anche oggi, nessun altro a parte noi. Soltanto un tizio in cui, nel mio delirio, scorgo una lieve somiglianza con Tony Aguilar. Tiene in braccio una bambina dolcissima, codini di capelli scuri e sguardo timido. Se ne stava lí, all'esterno, in attesa paziente. Almeno fino a quando non ha visto entrare noi.

Maria - l'assistente di Dani- mi rivolge inaspettato un saluto radioso, mentre si dirige alla caffetteria. Carlos fará lo stesso poco dopo.

E intanto quel tizio se ne sta seduto sul divano accanto al nostro, a chiacchierare con la bimba a bassa voce. C'é talmente tanto amore, nei suoi occhi, che per un attimo mi commuovo anch'io.

C'é Dani”, frase bisbigliata ad immediato seguito del “Ping” dell'ascensore. Si avvicina trascinando un trolley nero. Sopra ad esso, la custodia del portatile e un sacchetto in nylon tono su tono.




Buenos días”, ci dice tranquillo mentre appoggia il tutto contro alla parete. L'espressione di chi ha dormito poco, ce l'ha forse ancora piú di me. Si avvicina. Due bacini a testa. Poi, voltandosi, gli scappa un sorpreso “Ostras!” in direzione di quasi-Aguilar.

Scusatemi un attimo: vado a salutare mio cugino e torno da voi tra un momento”.
Mentre rispondo “fai pure” i miei sensi di colpa aumentano in modo esponenziale.

Con la coda dell'occhio lo vediamo sedersi accanto alla bimba. Prenderla in braccio, scherzare con lei. E manco a dirlo, io mi intenerisco ancor di piú. Mamma mia. Dovró assolutamente fare qualcosa, per quest'improvviso istinto materno. Che cavolo, sono riuscita a commuovermi persino perché negli aerei, al momento di presentare le misure di sicurezza, dicono “mettete la maschera prima a voi e poi ai vostri figli” come se fosse un gesto contro natura! Cioé, mi é venuto proprio da piangere, capite? Non é normale.

Comunque. Dieci minuti dopo, mentre la bimba torna a rifugiarsi tra le braccia del papá, Dani mantiene la promessa, tornando da noi.

Como estáis, chicas?”
E, mentre firma il libro a Maricarmen, io non riesco a trattenermi piú.

“Dani, mi spiace se sono tornata qui in hotel anche oggi, io non...”
Nooo, y por qué? Tú tranquila!”, mi dice con tono sinceramente confortante.
E' che volevo salutarti prima di partire.”
Claro, hai fatto bene.”
Sí , peró non vorrei distrurbarti. Io non voglio essere...”

La frase sarebbe dovuta continuare, nelle mie intenzioni, con l'aggettivo “assillante”. Solo che lui non me la lascia finire. D'impulso, senza dire niente, mi stringe forte a sé. Rimango talmente interdetta da impiegarci un po' , a ricambiare l'abbraccio. E poi non ho bisogno di altre parole.

Cambio argomento con un tono piú frizzante, informandolo che scriveró “la crónica” dei suoi concerti per un sito web italiano.

Las crónicas de Narnia”, scherza lui. E - per quanto un po' nonsense- tutte quante, alla fine, ridiamo.

Una battuta a Celine sul fatto che ieri sera c'erano altri ragazzi di Parigi. Una macchina fotografica che cade. Poi, lo lasciamo andare a fare colazione.

Non ci mette molto, in realtá. Quando torna, Maricarmen lo chiama per la foto di rito. Scegliamo di farne una sola, tutte assieme, per non fargli perdere tempo. Mi cinge le spalle a favore del flash, e poi, dopo di esso, mi abbraccia di nuovo.

Gracias por venir”
Buon viaggio, Dani.”
Buon viaggio a te”.

Sta giá uscendo, quando gli urlo dietro “ci vediamo a Málaga”. Allora si gira. “Venite anche lí?”.
Certo!”

Guarda Celine e me, vagamente sconvolto.
Jo...muchas gracias, chicas, de verdad”.




Due ragazze che, in quanto a episodio, potrebbero essere me, entrano in quel momento dalla porta laterale. “Scusate”- ci dicono - “é giá andato via Dani Martín?”.

E' questo qui col cappuccio”, dice Maricarmen indicandolo. E' ad appena due centimetri da loro, e a me viene da ridere un po'.

Un altro viaggio da sogno finisce cosí. Sperando che il prossimo sia ancora migliore. Ché ormai, all'impossibile, non ci credo piú.

giovedì 19 gennaio 2012

Parentesi promozionale (sempre a tema, peró).

Ok, vi chiedo pazienza. Ché io mi rendo conto che oggi sto giusto leggermente intasando il web, ma 'sta cosa mi emoziona da morire. E lo so che é stupido, intendiamoci. Solo che...eddai, stiamo parlando di una mia recensione dei concerti di Dani Martín pubblicata in un angolino virtuale che é altro da questo blog. Un angolino molto letto, peraltro. Fatto bene.  E' o non é un traguardo meraviglioso? 

Perció, scusate, ma proprio non riesco a trattenermi. Prima di regalarvi l'ultima parte delle mie cronache smielate, vi passo il link che apre la porta a un'altra piccola grande collaborazione. 

Hope you like it, my friends. 





mercoledì 18 gennaio 2012

Cronache catalane, parte II: letture e abbracci in una torre di vetro.


La sagoma di Sil, scura contro il sole del primo pomeriggio, ci appare inconfondibile in fondo alla strada. Davanti a lei, Judith ed Elena stanno già affrontando con aria decisa la porta girevole dell'edificio. E' una torre alta, vestita di quel vetro che non lascia spiare l'interno. Un grattacielo a cinque stelle le cui stanze danno presumibilmente la vista sul mare. Adesso, a guardarlo da qui, mi appare come una sorta di giocoso caleidoscopio: restituisce i raggi in tanti piccoli arcobaleni di riflessi colorati, perdendo tutta l'inquietante possenza che mi sembrava avere nel primo mattino.


Celine ed io acceleriamo il passo, dopo un pranzo trangugiato senza troppo entusiamo. Ho le ossa indolenzite dall'aria gelida del parco in cui ho passeggiato. Inumidite dal sudore del paseo maritimo in cui ho fatto turismo poco fa. Un'aspirina efervescente appena sciolta nel bicchiere previene gli effetti di tutti i miei starnuti. O per lo meno, vivamente ci spero.

“Ma ciao! Anche voi qui?!”

Raggiungiamo le altre nella hall di un albergo che fingiamo familiare, pur sapendo a perfezione che non potrà esserlo mai. L'orario l'ha svuotato dai clienti in partenza, lasciato intonso da chi è ancora fuori a pranzare. Resta solo la scelta tra i divani rossi e bianchi, disposti ad incrociarsi attorno a tavolini in vetro. Ordiniamo acqua e Coca Cola, per scioccarci bisbigliando dei quattro e quattro euro e cinquanta che ci vengono richiesti per ogni consumazione.

Sí, peró guarda che quell'acqua lí é proprio buona. Poi é nella bottiglietta di vetro...”
Ho capito, ma con 'sto prezzo me ne compravo tre casse intere al supermercato. Cos'hanno fatto, ci hanno tritato dentro le pepite d'oro?”



La sorseggio lentamente, come fosse un rito religioso. E nel frattempo penso a un vecchio corso seguito tempo addietro all'universitá. Non c'é che dire: qui li hanno seguiti tutti, i principi della comunicazione ambientale. Si respira relax in ogni angolo. Nella musica chill out che inonda l'ambiente a basso volume. Nella luce soffusa. Diffusa, non imposta dall'alto, dai pannelli colorati dietro al bancone del bar, dove un tizio sorride affabile anche se non ha nessuno a cui rivolgere il sorriso. Per cui, se alla comoditá dei cuscini aggiungete la digestione in corso , capirete che l'abbiocco lo schivo per un pelo. Anzi, forse non lo schivo affatto. Perché di fatto ho quasi chiuso gli occhi quando i musicisti fanno il loro ingresso dalla porta principale. Mentre gli altri chiamano l'ascensore, Iñaki ci rivolge un saluto da lontano. Qualche parola scambiata in fretta con Carlos Gamón, poi si dirige verso di noi.

“Hola! Como estáis?”

Bacini dispensati a tutte e cinque, nel momento in cui realizzo che, per la prima volta, ad aspettare Dani ci siamo soltanto noi.

“Come vi é sembrato il concerto, ieri? Si sentiva bene?”
“Benissimo, acustica perfetta!”
“Si sentiva da Dio perfino via cellulare, per cui non immagino dal vivo...”

Elena gli strappa un sorriso.
“Beh, il cellulare non fa testo! Ma tu non c'eri, ieri?”
“No, problemi di studio...solo oggi.”
“Invece voi vi fate tutte e due le sere?”, ci chiede abbracciandoci idealmente con un gesto della mano. Assenso sicuro. Occhi sgranati. E “Madre mía!!”

“...Porque esto costaba, no?”
“50 euro a biglietto”, esclamiamo tutte assieme, in tono grave.

“Caspita! Me l'avevano detto che l'affitto del Palau era caro, ma non avevo idea di quanto costasse...beh, grazie mille, davvero!”
“..comunque non é niente in confronto ai prezzi dei Red Hot Chili Peppers”, interviene Judith.
“Sei andata a vederli?”, si informa il pianista.

“Sí, qui a Barcellona. Concerto stupendo, per caritá, ma il biglietto mi é costato 101 euro tondi. Per una serata sola”
“E non eri in un posto vip, tipo poltronissima o roba del genere, immagino. Giusto?”
“Macché! Gradinate, come tutti.”
“Che esagerazione, per quel prezzo lí avrebbero dovuto come minimo offrirti anche una cena con loro, o un ingresso in camerino con catering e free drink.”

Scoppiamo tutte a ridere, un po' per sdrammatizzare. Nel frattempo, il “ping” dell'ascensore apre la porta ad una breve siesta pre-soundcheck.

“Vabbé, ciao ragazze! Io vado che poi tra un po' dobbiamo provare! Divertitevi stasera! E, allora, a dopo!”

Lo guardiamo allontanarsi, discutendo per un paio di minuti sul numero di piani che questo palazzo potrebbe mai avere. Non abbiamo molto tempo, per goderci ancora un po' la morbidezza dei cuscini. Giusto i secondi necessari a commentare l'affabilitá di Iñaki, ed inghiottire un altro sorso di acqua-pepita. Acqua con cui quasi mi strozzo non appena la voce di Elena, tirata ma tranquilla, informa che é terminata l'attesa. “E' arrivato Dani!”.

Sguardi che si girano in silenzio verso l'ingresso, indecisi sul tipo di saluto da lanciare. Decidiamo di rimanere sedute, come se niente fosse. Tanto lo sappiamo, ci speriamo, che si avvicinerá lui. E infatti.

Spalanca appena gli occhi azzurri. Espressione di divertita sorpresa, mentre la camminata svelta si dirige verso di noi.

“Hola Chicas!”

E' allora che mi alzo. “Hola”. E, raggiungendomi per prima, mi stringe in un abbraccio per cui non saprei mai trovare descrizioni. Una stretta morbida in cui mi culla un po'. Una stretta che si chiude un po' di piú attorno a me quando sto per abbandonarla. E mi trattiene ancora, per piú tempo di quanto – almeno credo – abbia fatto mai. Attorno a me la scena viene salutata da un corale “ooooh! Qué bonitoooo”, che mi arriva attutito. Che forse ho immaginato. Che non so mica chi ha pronunciato per prima.

“Gracias”, mi dice poi a voce bassa, quasi nell'orecchio, staccandosi da me.
“A ti”, dico con voce stupida e sorriso a troppi denti, mentre saluta le altre con due baci ciascuna.

Ne approfitto per estrarre dalla borsa il mio famoso libro, decidendo che il momento é ora.

“Dani, esto es para ti.”
Lo afferra, con sguardo interrogativo, iniziando piano a sfogliarne le pagine. Apre la bocca per dire qualcosa e, prima che possa farlo, lo interrompo con le mie spiegazioni.

“...Sono tutti i tuoi messaggi sul forum verde dal 2007 a quando é stato chius...”
L'entusiasmo di Elena, utente assidua di quel vecchio forum, mi coglie in contropiede.

“DAVVEROOOOO?!”
“Sí, tía, io l'ho letto ieri, é una figata, c'é tutto!”, interviene Sil.
“Oooh, io lo voglio! Dani, fammene una copia!”

“No me lo puedo creer!”
Dice allora lui, guardandomi con un'espressione in bilico tra commozione e shock. Prende a sfogliare le pagine piú avidamente, soffermandosi a leggerne qualcuna qua e lá. Guardo i suoi occhi scorrere sulle parole che ho copiato (e commentato), mentre le sue labbra si incrinano di volta in volta in un sorriso, in una smorfia o, piú semplicemente, in un atteggiamento di malinconica riflessione.

“...E poi ci sono altre sorprese qua e lá, e foto...”



Mi guarda fisso per un attimo. “Muchas gracias, de verdad”, poi torna a leggere. E a me inizia a salire un crescente senso d'inquietudine tra gambe e guance. Non c'é cosa al mondo che mi imbarazzi di piú di qualcuno che legge i miei scritti in mia presenza. Non importa che sia Dani o chiunque altro: il punto é che mi ha sempre fatto sentire dannatamente vulnerabile. Non so come spiegarlo, ma é decisamente peggio che parlare in pubblico. E' peggio di qualunque altra cosa. E' come...non lo so, come stare nuda al centro di una stanza piena di gente in smoking che ti fissa senza interruzione. E' terribile.

Cerco di far finta di niente, pur saltellando da un piede all'altro. Maschero il tutto con una parlantina di ritmo crescente, la voce mio malgrado sempre piú acuta.

“...e altre cose che, insomma, vedrai da solo. Quando lo LEGGERAI. In futuro.”

Ma sembra non cogliere. Ed io non ce la faccio piú.

“Peró non farlo giá adesso, che mi da..che mi da...non so...ufff!”
“Si imbarazza, Dani”, corre in mio soccorso Sil.
“Sí, parecchio, a dire il vero.”

Allora mi guarda, ridacchia, e chiude il libro in un tonfo. Dentro di me, sospiro di sollievo. Ma mi basta voltarmi un attimo ad afferrare la macchina fotografica per ritrovarlo con gli occhi sulle pagine. Cioé, chi é che diceva che la curiositá é donna?!

“Pero sigues leyendo?!”
Mi scappa ,in tono un po' indignato, dal profondo dell'anima.

Lo sguardo furbo che mi regala, tuttavia, sembra sufficiente a sciogliermi.

“Ah, ma praticamente sono le cose che scrivevi tu, e quelle che scrivevo io?!”
“No, no. Sono solo quelle che scrivevi tu! Magari avessi ancora le mie...quelle le ho perse!”

Nello stesso istante in cui pronuncio la frase, mi viene in mente che magari la pagina che stava leggendo era una delle poche in cui avevo riportato un nostro botta e risposta. Per cui é anche probabile che stia pensando che sono del tutto psicopatica. In effetti, lo sguardo perplesso ce l'ha. Ma, oh, insomma, chi se ne frega! In fondo mi conosce, ormai. Finanche nella mia pazzia.

Sfoglia rapidamente tutte le novanta pagine in formato a quattro, come una specie di maxi ventaglio. Poi le richiude in un tonfo.

“Beh, ho scritto un bel po', eh?!”, mi fissa sorridendo.
“...E pensa che magari mi é anche sfuggito qualcosa!”.

Il suo tono si fa serio.
“Io non credo che a te possa essere sfuggito qualcosa”.
“Infatti, proprio no”, gli danno man forte le altre. E io, per un istante, mi sento avvampare.

Judith, nel frattempo, ha preso in mano le redini della conversazione. Gli porge qualcosa da autografare, si complimenta per un programma televisivo andato in onda di recente, e - senza volerlo – dá il via a una discussione sul presentatore Cesar Millan. Ascolto interessata, senza avere molto con cui intervenire. Poi, senza soluzione di continuitá, Dani mi scuote dal mio provvisorio torpore.

“Ilaria, pero tú en qué parte de Italia vives?”
Semplifico adducendo la relativa vicinanza a Venezia, e gli strappo un'esclamazione di meraviglia.
“Venecia! Jo...qué bonito!”
“Devi venirci, lo sai”.
Sorride.
“Anche perché, a parte tutto, mi devi firmare un po' di roba: il libro, l'edizione libro di Pequeño, Arriba el telón, de Personas a Personas...tutte 'ste robe pesano, non le riesco mai a portare in valigia viaggiando con Ryan Air”

Con la coda dell'occhio, scorgo in quel momento la presenza fino ad allora muta del road manager Carlos, che sta osservando i miei deliri con aria a dir poco sconvolta. Devo fare uno sforzo sovraumano per non ridere.

“Mentre César é di Roma, giusto?”

Torno a concentrare l'attenzione su Dani, perplessa. Cesar Millán? Quello di cui stavano parlando poco fa? Ma non era messicano?

“Davvero? Non lo sapevo!”

Dentro ai suoi occhi azzurri, vedo apparire distintamente un altro paio di punti interrogativi. “Come no? Cesar, Cesare”. L'inciampo sulla pronuncia mi svela di colpo l'arcano. Sí, ma allora ditelo, peró, che il soggetto é cambiato!

“Ahhhh Cesare! Cesare Cremonini?”
Annuisce, come se fosse ovvio.
“No, lui é di Bologna”.

“Bologna. Ah.” , ripete con aria pensosa. “Comunque lui adesso sta facendo cinema, vero? Cioé, non sta facendo musica, giusto?”

“No, no, guarda che sta componendo per il disco nuovo!”
“Ah, sí?”.
Per qualche strano motivo, ho come la sensazione di dover aggiungere qualcosa.

“Ma alla fine com'é finita, allora? Collaborate? Vi siete parlati?”
“Mah, guarda...io gli ho scritto, qualche volta. Ma penso che non mi capisca.”
“Scrivigli in inglese!”

Ci pensa sú un attimo, fissandomi.

“E' che il mio inglese non é che sia particolarmente buono...mi sa che capirebbe ancora meno!”

Scoppiamo tutti a ridere. A me resta strozzata in gola la proposta di fungergli da traduttrice. Forse dovrei dirlo, e peró forse é scontato. Forse, soprattutto, sembrerebbe un modo bieco e subdolo per cercare di avvicinarmi di piú a lui. Forse, se non fossi una fan, sarebbe piú facile. O forse sono solo paranoica, che ne so.

“Beh, ragazze, vado a riposare un po'. Ci vediamo stasera”
“Possiamo farci una fotina, prima?”, chiede Elena.
“Certo!”

“Rifalla”, dice all'improvvisata fotografa quando arriva anche il mio turno, “che mi sa che ho chiuso gli occhi”.
“Sí”.



E poi, mentre ormai sto allontanandomi, mi accarezza teneramente la schiena.
“Gracias por venir”, ribadisce mentre mi volto.
Con lo stesso tono stupido di sempre,ancora non posso evitare di rispondergli “a ti”.

Proprio ieri, su twitter, Dani Martín ha chiesto a Cremonini come procede il suo disco. In inglese. Non ero neanche connessa. Peró non so spiegarvela, la mia soddisfazione.  

(to be continued...ma manca poco, lo giuro)