lunedì 30 gennaio 2012

Un angolo di Andalucía nel centro di Vicenza.

Mezzogiorno, quasi in punto. Al centro di una cucina da sogno, le pentole giá covano pietanze che io, poi, non mangeró. La stanza é invasa da un compás di bulería: arriva dal portatile di Alice, e annuncia un video caricato su youtube. E' un ricordo dello spettacolo di ieri. Un ulteriore incremento di quest'assurda voglia di ballare. Non posso farci niente, é come un sorta di stimolo pavloviano. Ché qualcuno batte i piedi su assi di compensato e io farei lo stesso mentre passo il mocio a casa mia. Perché, andiamo! E' risaputo che non c'é pretesto migliore della pulizia dei pavimenti per improvvisare karaoke e coreografie. E poi il mocio é stato pure inventato in Spagna, per cui direi che sono in tema. No?





“Ila, un cucchiaino?”, dice intanto lei indicando zuccheriera e tazza di caffé.
Ombra di smarrimento sul mio volto assonnato.
“Uno sí, per mescolare”.

Eh beh.

Ma, insomma, capitemi: quei bicchieri di Pedro Ximenez mi hanno resa cosí felice da non ricordare come accidenti si scrivesse Hemingway. E a volte non c'é miglior riassunto di quello intrinseco in mattinate da coma. Ieri é stata una bella serata. Bella proprio. Bella come puó esserlo soltanto un angolo di Andalucía al centro di una Vicenza sottozero.




Che il Morao y Oro, lo spirito dei tablao, lo ricrea a perfezione. E parlo dei tablao autentici, lontani dalle richieste dei turisti. Parlo di quei posti piccoli e un po' tetri in cui il flamenco nasce e si esprime davvero. E non ci sono le lusinghe dei pois sui cartelloni. Via le distorsioni kitsch dei locali stereotipati. No. Qui, ci arrivi soltanto se conosci l'indirizzo. L'indecisione di una cartina mentale a guidarti verso una fioca luce viola al fondo di una strada stretta e poco illuminata. Una sola locandina affissa sul muro diroccato confermerá il benvenuto in quella che, da fuori, non sembra nient'altro che una vecchia casa.

“E' permesso?”, azzardo dopo il “clang” che m'apre il cancello dopo troppi tentativi. Un tamburellare sordo e ritmico di piedi si fonde a qualche accordo di chitarra. Una mostra fotografica decora le pareti di balze ed espressioni sofferte.

“Ah, ecco perché non sentivano il cellulare”. Mi dirigo a passo svelto verso una stanza sul retro, attirata da quei suoni famigliari. Un abbraccio a Paola, un caloroso ciao a tutti, o in bocca al lupo. E, sin dal primo istante, io mi sento a casa.




Poi non é soltanto per la musica. Non c'entrano le tapas- tutte fatte in casa- per quanto completino nel gusto l'atmosfera della mia serata ideale. Non c'entra neanche il vino, pensa te. Il fatto é che stare lí significa ricongiungersi con amici. Appoggiarne la coraggiosa iniziativa di inaugurare un posto come questo in una terra che, di per sé, non gli appartiene. Stare lí mi offre il pretesto perfetto per ritrovare un'altra blogger filoispanica. E parlare di film. Di viaggi. Di abitudini linguistiche. Di musiche e argomenti che, nel quotidiano, c'isolano dalla realtá socio-culturale a cui, malgrado tutto, apparteniamo. Che, in fondo, é pure questo il bello d'essere una nicchia. Che tra amanti sfegatati della Spagna, in qualche strano e tecnologico modo, si finisce per conoscerci un po' tutti.

Ci si legge sui rispettivi blog, per l'appunto. Si partecipa agli stessi concorsi. E assieme si tesse la rete perfetta. Maglie strette eppure confortanti, che giocoforza intrappolano in quel senso d'appartenenza che cercavi. Un po' come succede (ed é un insieme a intersezione) coi fanclub.

Mi sento a casa, anche perché la comitiva di Alice la conosco ora eppure mi sembra di farlo da sempre. Perché le relazioni che instauro si basano sempre su ció che dice la mia pelle. E per un fatto di pelle – o forse c'entra la cornice? - io con tutti loro mi sento sin dal primo istante a mio agio. Poi li guardo. Percepisco il loro entusiasmo di fronte a un mondo nuovo che li ha giá affascinati. Un mondo con regole proprie, uno di quelli che non puoi spiegare. Ascolto i loro applausi dopo quello spettacolo, e , per quanto sembri assurdo, sento montarmi dentro un orgoglioso senso di responsabilitá.

Perché il flamenco non é danza. Non é canto. Non é musica. Il flamenco é qualcosa che ti resta indifferente o ti travolge nella sua rabbiosa e scalmanata passionalitá. E' una dimensione fatta di pose dalle linee imperfette. Di movenze terrene. Di gente normale che non ha bisogno di rispondere a precisi canoni fisici o sorridere comunque solo perché sta sul palco. Gente che puó permettersi, anche su quel palco, di dialogare e sentre. Il flamenco un giorno é entrato, grazie a Dio, nella mia vita. E oggi mi compiaccio di averlo presentato, seppur indirettamente, anche a tutti loro.  

2 commenti:

  1. ecco!non so se ricordi...ma anche sul vecchio blog,ti commentavo che quando parli di Flameno(opsss scrivi)si sente che è tuo...si sentono i passi...le palmas....i colori...i sapori....
    brava...è il tuo mondo!
    kitolè

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