domenica 28 ottobre 2012

Tamburi.


Credo sia quasi un richiamo ancestrale. Non me lo spiego altrimenti, il senso di liberazione a cui s'abbandonano i corpi attorno a me. Di colpo l'euforia mi prende gli occhi. Riempie orecchie, sensi, cuore. E intanto ballano, ballano tutti. Una signora brasiliana che m'ero abituata a vedere in veste seriosa. L'attore di un film. La ragazza di Bologna. Qualche altra mia collega che non avevo avuto modo di conoscere ancora. Ché a volte non serve neanche più la melodia. A volte basta il ritmo. E' tutto lì.



C'ero andata leggermente controvoglia, a quella premiazione. Sì, insomma, pioveva a dirotto. Meteorologi allarmisti insistevano, sbagliando, su temperature prossime allo zero. Poteva davvero un'altra cerimonia competere col caldo del divano di casa?

Sì. Perchè lo sottovaluto sempre, il potere trascinante dell'entusiasmo latino. Le urla di trionfo di una famiglia peruviana seduta davanti a me. La partecipazione commentata in tono allegro davanti ad ogni singolo premio. Tendo a dimenticarla, quella loro voglia di vivere a voce alta. La frenesia di gioia che, dai colori alle cadenze, pare esplodergli dentro ad ogni dettaglio. Al di là delle apparenze. Dei “che cosa penseranno”. Delle occhiate critiche – e tutte italiane- a chi magari ti siede vicino.

E' che non era affatto un'altra cerimonia. Piuttosto, era un ritrovo di quel tipo di gente che riesce in qualche modo a farmi sempre stare bene. Stavo giusto mettendo a fuoco il concetto, quando la Banda Berimbau ha fatto irruzione in scena.



Tamburi, solo questo. Percussioni combinate in un crescendo assordante di allegria. Stanno lì, con le loro maglie gialle. Lì, stipati su di un palco che si accingono a lasciare. Scendono tra la gente, la guidano suonando verso il bar. E poi dal bar al palco, mentre ormai nessuno è ormai più seduto dov'era. A volte basta il ritmo. Ti scuote il corpo da dentro, porta via i pensieri nel tuo muovere le anche. Un rivolo di sudore su cui scorre via lo stress.

Per qualche breve istante, mi viene in mente il flamenco. Quello che riesce ad apportare alla mia vita battere i piedi a terra per due ore a settimana. Immagino fusion bizzarre in dodici tempi, e poi mi scappa da ridere da sola. Dai, com'é possibile che esistano ancora gli ansiolitici? Come, se c'è sempre il tempo per ballare?

Ieri sera si è in qualche modo conclusa un'altra esperienza che definirei “lavorativa”. L'ha fatto davanti a pizzette e pasticcini, nascosti da un cartello con su scritto “staff only”. Lì mi sono trovata a chiacchierare con persone viste sì e no due volte, e che però sembrava conoscessi da una vita. Di quelle con cui non ti ritrovi in imbarazzo neanche un solo attimo, fiera di un comune amore per la lingua. Per culture lontane. Per luoghi altri, eppure sempre un po' più tuoi di quello in cui ti trovi. E, senza che me ne accorgessi, in un lampo s'è quasi fatta l'una. L'attore, quello che prima ballava, ha impugnato una chitarra nel teatro ormai mezzo vuoto. Come se avesse capito; come se pure lui sapesse che adesso sì, adesso era il momento di aggiungerci melodia.

Finisce un festival cinematografico. Addio giornate passate a guardar trailer, cercare notizie ed aggiornare pagine di facebook. Eppure, mentre varco la soglia, sento che mi dispiace un po'. Questione di tamburi, suppongo. Tutta colpa di un richiamo ancestrale.

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