Ora: non
aspettatevi post particolarmente elettrizzanti. Ho iniziato a
scrivere questa mattina alle 11, e non ho ancora finito. Il che
dovrebbe dirla lunga sul mio attuale stato confusionale. Figuratevi
che ho appena rischiato di scrivere alla
mia casa editrice “vi auguro buona noche, dato che vedo la mail
tarde”. Piú son stanca e piú sono itañola, non mi smentisco mai.
Comunque.
Elettrizzante o meno, ci tenevo a darvi comunicazione di due cose. La
prima é che ieri sera quelli di Total Free Magazine mi hanno
intervistata in diretta radio. Si é parlato di Spagna, del mio
libro, di me. Una mezz'ora gradevole in cui
abbiamo riso non poco. E, se volete riascoltarci, potete farlo anche
voi cliccando qui.
La seconda é
che Giovedí 30, alle ore 18.00, presento
#Odissea per la prima volta fuori dalla Regione.
In concreto, lo farò alla biblioteca civica di Riva del Garda,
nell'ambito della manifestazione “Il Maggio dei Libri”. Tra
l'altro, la promozione che mi stanno facendo in Trentino è
francamente disarmante quindi ringrazio, arrossisco e bacio le mani.
Certo,
le previsioni del tempo non sono altrettanto incoraggianti. Ma è al
chiuso. Al calduccio. Ed io avrò un bel vestito. Quindi venite, se
vi va.
Insisto: amo la magia dei
concerti, (quasi) indipendentemente da chi suoni. Poi sarebbe stato
anche carino cambiare un po' argomento, me ne rendo conto. Ma mica è
colpa mia se l'altro giorno, a Trieste, son venuti a suonare i Green
Day! I Green Day, sì. Tizi californiani che a scadenza più o meno
regolare mi hanno regalato qualche brano da ascoltare in loop. Gente
che mi ricorda: A) la prima tesi B) Zapatillas, C) Un'amica spagnola.
Musicisti che adoro in virtù di Wake me up when september ends,
Boulevard of Broken dreams, 21 Guns, American Idiot,
Basket Case, e di cui però ignoro buona parte della
produzione. Non una fan, no, decisamente. Eppure capito –
sprovvista di biglietto – nel mezzo di una tregua dalla pioggia.
Sono le sei di sera, minuto più, minuto meno. Lo sa qualunque
concertista: è l'ora dell'ultima corsa al bagno. Dell'esodo a passo
affrettato verso auto ed hotel (tu, però, tienimi il posto) dove
depositare tende quechua duramente ripiegate, coperte, giubbotti
pesantissimi di sicuro ingombro al momento di saltare. E' l'ora in
cui si comprano panini e patatine da ingurgiare controvoglia per
cena. Quella in cui il ritorno alla fila kilometrica, poi, sarà
definitivo. E con esso l'adrenalina, che inizia in un batticuore
crescente a dar mostra di sé su volti e mani. Tremanti, per lo più,
le mani.
Tra promoter invadenti
della coca cola zero e grossi camion grigi parcheggiati al molo,
un'invasione verde si muove per la città. Rilassatevi: non parlo
degli alieni. Certo, vengono da fuori. Quasi tutti. Ma per “fuori”
s'intendono ancora gli angoli del Pianeta Terra. Accenti americani,
inglesi, tedeschi, sloveni, croati, emiliani, toscani, veneti sfilano
davanti agli occhi sgranati di qualche vecchietto poco avvezzo alla
cosa.
“Ciò, te ga visto
quanta gente? Mi no credevo!”
“I xe lì da giorni
accampai, sa? Che robe!”
Sorrido. Sorridono.
Persino gli erasmus spagnoli sono usciti in massa, a rendermi più
bella la città. File di wc colorati danno colore ad una piazza
transennata, ingrigita dal mal tempo, circondata da una fila a doppio
ingresso. Chilometrica. Crescente. Stranamente ordinata nonostante le
bottiglie vuote di birra e di cognac. O magari è in virtù di esse,
che si sono già abbioccati. Chi lo sa. Comunque sia, indossano tutti
qualcosa di verde. Alcuni se lo sono spruzzati addirittura sui
capelli, con quelle bombolette spray di cui avevo scordato
l'esistenza con il finire degli anni 90. I giornalisti filmano. Le
mamme fotografano. La tizia del merchandising si sfrega le mani da
lontano.
Bellissimo, sempre. Anche
se dei Green Day (mea culpa) non ho manco un disco da sfoggiare.
Bellissimo perchè il potere della musica lo percepisci nella
capacità di attrazione. Nei pullman venuti da lontano. Nel marasma
multietnico di targhe sulle auto. Nell'ebbrezza (anche non alcolica,
intendo) dei discorsi tra persone strette e un po' stremate sui
marciapiedi umidi.
Vorrei essere una di
loro, adesso. Con il mio sacchettino della Despar tra le mani, le
Converse distrutte ai piedi, le strategie pronunciate sottovoce su
quale zona del palco puntare. Laterali, sempre laterali.
Mi manca. Al di là di tutto e tutti. Di Dani, del Pescao, di Cesare,
del Cile, di chiunque abbia voglia di suonarmi davanti. A me mancano
i concerti. Punto sarà possibile esserne così drogata?
Sì, insomma, sarà sano?
Foto postata dal cantante dei Green Day su Instagram
Naa. Non può non esserlo
se mi brillano gli occhi al solo pensiero. Nel giro di dieci secondi
ho già deciso come vestirmi il 22 Luglio, quali amiche contattare
per il 27, e come festeggiare il mio addio al nubilato se mai mi
sposerò entro questa vita. Chè proprio l'altro giorno m'ha scritto
su facebook uno che, presentatosi come gigolò, mi proponeva i suoi
servigi in qualità di mio schiavo Se fossi interessata, beninteso.
Insomma, un po' m'ha fatta ridere. Però poi mi è venuto spontaneo
chiedermi se io sembri davvero così disperata. Non è stato il
massimo, come sensazione.
Comunque: la faccenda
dell'addio al nubilato c'entra con una biondina di Reggio Emilia.
Velo-Munita e vagamente brilla, come si conviene all'occasione, si
preparava a culminare i festeggiamenti proprio col concerto dei Green
Day. Grande idea, davvero. Si merita tutta la mia stima.
La tizia, poi, è stata
intervistata da un reporter della tivù locale. Non dirò quale, né
che programma conduca, perchè ne andrebbe forse di alcuni risvolti
miei professionali. Ad ogni modo, sembrava un tantinello brillo pure
lui. Insomma, mica è da tutti riuscire a farsi insultare da una
futura sposina, essere guardati male dall'addetta al merchandising, e
chiedere al responsabile del turismo se il batterista dei Ramones si
sia poi portato a casa del prosciutto. Il tutto, in meno di 10
minuti. Cioè, complimentoni.
Il suo cameraman, in
compenso, non era brutto proprio per niente. Era al mio fianco,
mentre riprendeva l'apertura dei cancelli. Il Momento Clue di ogni
evento live. Stranamente senza corse disperate. Senza spinte. In
ingressi scaglionati e ordinatissimi di cinque o sei persone per
volta. Nessuno che urla, nessuno che si lamenti perchè gli
requisiscono l'acqua o perchè la tal tizia coi tacchi è arrivata
ora e pretende di passare avanti. Cacchio se ne avremmo, da
imparare!
Avremmo. Plurale,
esplicito e sottinteso, che rivivrò poco più tardi dietro ad un
telo bianco appena rassettato. L'avevano tagliato, prima, a scapito
delle regole e beneficio di scrocconi come me. Ma poi un uomo
corpulento aveva dimostrato irremovibile il perchè di tutti quei
cerotti sul capo.
“Mi dispiace”, si
scusa il ragazzo della security che aveva cercato di agevolare il
nostro essere spettatori privi di biglietto. Il mio vicino di posto
(ci avrei giurato, che era spagnolo!) inizia ad insultarlo nella
lingua di Cervantes, mentre a me scappa da ridere un bel po'.
Ma il plurale, si diceva,
sta in una bandiera italiana. Billie Joe l'afferra in mezzo ad una
delle canzoni per cui li adoro. E la mia mente, incontrastata,
applica sovrapposizioni. Di Valencia. Di Madrid. Sembra ancora tutto
lontano migliaia d'anni. Tra l'altro, ha ripreso a piovere per bene.
Però sono in mezzo ad un
concerto. E in mezzo ad un concerto, del resto del mondo, riesce
sempre a non fregarmene alcunchè.
Ci sono tante cose che non mi piacciono, nel ritorno di Dani Martín. Non guardatemi cosí: da qualche parte lo dovevo pur scrivere! E chi se ne frega, per una volta, se non si addice al ruolo che mi sono ritagliata. Non é mai tutto perfetto, neanche se ammiri qualcuno al punto di gestirne un fanclub.
Non mi piace il suo nuovo look, tanto per dirne una. Quel taglio di capelli un po' alla Elvis mi sembra non c'entri con carattere ed etá.
Non mi piace non saper rispondere a chi mi chiede informazioni sul lancio in Italia. Non mi piace che non mi segua su Instagram. Non mi piace che la Sony si impossessi del suo account di Twitter senza firmarsi con la parola “staff”. Perché dai, ometterla é un po' tentare l'inganno. E Dani non li usa, i punti esclamativi al contrario. Non accorcia i link con bit.ly. Dani, soprattutto, non twitta dalle piattaforme per pianificare l'invio dei messaggi. Lo sappiamo tutti!
Non mi piace il fatto che, di questo progetto, io non sia ancora riuscita a percepire l'anima.
Intendiamoci: io, in fondo, li capisco. Un album internazionale – il primo!- prevede grossi investimenti di denaro. Tutto deve funzionare al meglio. Non ci si possono permettere rischi. Per cui é piú che giustificato che la casa discografica imponga maggior controllo, sempre che lo stia facendo davvero e non sia soltanto un'impressione mia. Io non incolpo loro, e men che meno incolpo Dani. Figuriamoci! Dico solo che mi mancano, i suoi messaggi ansiosi prima di un evento. Le barzellette idiote. La profusione di affetto. Mi manca l'interazione con i fans, a volte cosí intensa ed entusiasta da intasarmi letteralmente la Timeline. E le “rondas de preguntas”, i baci, le foto, i video... quelli veri, peró, fatti con la chitarra da casa sua, appena sveglio, o magari filmati per provare una nuova videocamera direttamente dal manubrio della bici. Mi manca leggere la persona, dietro a tutto quel marketing. Per quanto il marketing sia studiato in modo pressoché perfetto. Per quanto Nahuel non si smentisca nella realizzazione impeccabile dei clip. Per quanto. E' che dice, Dani, in uno di quei trailer, che quel disco é “nostro”. E, per la prima volta in otto anni, io non lo sento mio manco per niente. Non mi piace, no, che sia sparito per tutti questi mesi.
Perché adesso io non riesco ad entusiasmarmi. Non quanto vorrei, almeno. Vedo le persone con cui ho condiviso attese ed emozioni. Le leggo felici, pronte a condividere ogni notizia, ogni copertina. Pronte ad inondare di complimenti colui che ci ha fatti conoscere. Le vedo scalpitare all'idea di un tour, e tutto ció che riesco a pensare é “che cazzo, calmatevi, é soltanto un disco”. Soltanto un disco, capite? La stessa cosa che, fino a Dicembre dell'anno scorso, tutti dicevano a me. E io ribadivo che non avrebbero mai potuto comprendere, mentre il cuore mi batteva forte all'uscita della sala Joy. Coriandoli tra i capelli, profumo di Angel Man. Lui che mi abbracciava. Una carezza sulla mia guancia. E per me era tutto lí, il senso della mia passione. Cos'é successo? Cosa accidenti mi é successo?
Quel che é peggio é che non lo so. Che, giuro, non ne ho proprio idea. Lui mi ha chiamata “amica” poco piú di una settimana fa. E, invece di bearmene, sto qui a pensare che non credo che avrei poi cosí tanta voglia di tornare a fare file di due giorni solo per vedermi dedicare una canzone.
Di tanto in tanto apro la copertina del suo libro. Leggo “Ilaria, gracias por toda tu ilusión”, e mi viene da piangere. Quell'ilusión mi definiva, e per qualche motivo non la sento piú cosí forte come prima. Non mi piace palpare l'emozione degli altri, fingere di esserne parte, e sentirmi lontana anni luce da quella che ero ieri. Magari sará il tempo. Una fase. Non so. So che ho bisogno di un concerto di un tizio di Arezzo, perché tra i miei interessi recenti é l'unico che non c'entra proprio niente con tutto ció. E sono anche patetica, é vero.
Non mi piace l'idea che per la piú bassa e bieca delle invidie io abbia finito per allontanarmi da un'amica. Una con cui ho condiviso momenti bellissimi. Una che mi faceva ridere. Una con cui uscivo la sera. Una con cui stavo bene. Una che mi ha aiutata, ascoltata e fatta sentire meno sola. Pensarci mi fa sentire una persona di merda. E non mi dite anche voi che “mi rende piú umana”. Perché voglio ancora credere che non sia l'invidia a connotare l'umanitá. Sapete? Se sto pensando di tornare a Málaga é anche un po' nella speranza di rivederla. Di trovarci in quella tetería in cui andavamo sempre, guardarla negli occhi, e chiederle scusa. Scusa, anche se lei non sa niente delle mie paranoie. Anche se forse pensa che ad averci distanziate siano stati soltanto i kilometri e le compagnie.
Non mi piace l'idea che una passione possa provocarmi questa dannata malinconia.
Ma poi premo play. Le prime note di Cero mi accarezzano le orecchie, in una intro al piano. La melodia cresce progressiva, nel climax di aspettative che non m'ero accorta di avere. E la sua voce, quella voce...
Di colpo, mi accorgo che i brividi mi stanno ancora attraversando la schiena. Dieci secondi. Solo dieci, dannatissimi, secondi. Eppure ho giá capito che mi piacerá. Che ne varrá la pena. Che riprenderó ad andare ai suoi concerti, a respirare Angel, a sentirmi felice per una sua carezza o magari perché mi chiama amica. Amica.
In fondo é questo che conta, no? La musica, nient'altro. E se riesce ad emozionarmi in solo dieci secondi, beh...allora chi se ne frega di quel ciuffo alla Elvis! Chi se ne frega del marketing! Se é sparito, se non mi segue su instagram, se non mi sento entusiasta quanto gli altri...dico sul serio, chi se ne frega!
Ché il titolo di quella canzone, forse, lo posso prendere ad invito personale. Ricominciamo da zero. Con un po' piú distacco, un po' meno invidie, con una riconciliazione, magari. Ricominciamo da zero. Senza angosciarci troppo, sempre che io ne sia capace. Se davvero con questo disco Dani Martín arriverá in Italia, allora sará il disco della mia vita. E, dal disco della mia vita, non puó che uscire qualcosa di buono.
Ma adesso scusate: devo andare ad aggiornare un fanclub.
...Che
poi, a dirla tutta, non é che resti molto da raccontare. Voglio
dire: lo sposo é di famiglia tecnologica. Il che implica cerimonia
in diretta streaming, ri-guardabile in differita quante volte vuoi.
Ma anche una serie di hashtag dedicati agli eventi, che garantiscono
una minuziosa cronaca consultabile da Twitter. 140 caratteri per
volta. Minuto per minuto. E qualche foto.
A
volervi raccontare l'inedito, dovrei piuttosto dirvi dell'immane
fatica fatta per non piangere. O, forse, dell'aspetto migliore delle
nozze in Comune. Perché, se é vero che la Chiesa ha atmosfera e
solennitá, il freddo di una stanza bianca induce a personalizzare.
Cosí, il rito puó essere officiato da una cugina dello sposo, che
antepone a formule collaudate il discorso modellato ad hoc che puó
fare solo chi ti conosce bene. E la sposa puó entrare ballando,
valorizzata da un vestito da favola, in omaggio all'arte che
abbraccia sin da quando era bambina. La voce di Andrea, pulita e
bellissima, la accompagna intonando “The Power of Love”. Cosí,
con veli bianchi e neri, lei svela in parte il motivo del dress code
imposto: quel bianco e nero d'impatto elegante che mi ha accolta
all'ingresso poco fa. I non-colori d'anime complementari, unite nello
yin e nello yan che ora assembla sul suolo.
E
sí, lo vogliono. Sí, tutti abbiamo sentito. No, nessuno si oppone.
Poi
c'é il riso, raccolto in cartoncini neri monodose. Sovrastato da un
paio di petali bianchi. Rovesciato da un sacchetto intero dritto
nella giacca dello sposo, tra foto di rito, guerre di bambini, e
scoppi di ilaritá.
Potete
aggiornare gli stati di Facebook. Puoi baciare la sposa.
A
volervi raccontare di piú, dovrei insistere di certo sul tragitto
verso il ristorante.
“Guarda,
c'é la mamma di Laura, seguiamo lei!”, diceva la conducente.
“Ma
dove?”
“Questa
qui davanti!”
“Ma
sei sicura che sia lei? A me sembra che avesse un'altra macchina...”
“No,
no, é lei! Fidati! L'ho vista qualche volta!”
“Sí,
anch'io, ma...”
Non
era lei. Lo appuriamo alla terza rotonda, quando ormai gli altri
invitati sono giá spariti chissá dove. E
adesso che si fa? Segui “Centenaro/Vaccarolo”, dovrebbe essere da
quelle parti. Ok, peró aspetta che chiamo Alberto.
Ma Alberto, manco lui, non sa dove andare.
Finalmente,
un'auto grigia palesa nei fiocchetti l'appartenenza alla carovana
nuziale. Ci lanciamo all'inseguimento, solo un po' piú calme che in
un film di spionaggio americano. Peccato che, dieci minuti dopo, tra
noi e quell'auto si frapponga un furgone. Come nei migliori
depistaggi, sparito il furgone, anche l'auto grigia non c'é piú. Al
suo posto, un cartello con sú scritto “deviazione”. E una
stradina sterrata, inondata di pozzanghere fangose, che si snoda nel
deserto della campagna bresciana. Di bene in meglio, della serie. Ma,
per fortuna, c'é il mio navigatore. Quello del cellulare, intendo,
che prima di allora non avevo testato proprio mai. Incredibilmente,
nonostante la mia diffidenza, ci porta a destinazione prima ancora
degli sposi. Ed è lí che ci raggiunge la chiamata di Alberto,
disperato in mezzo ai campi, in cerca di un aiuto via Whatsapp.
In
ogni caso, la destinazione é idilliaca. Merito, in parte, anche del
meteo. Ha mantenuto le promesse, valorizzando in un cielo
azzurrissimo le rose bianche dell'agriturismo. I profumi. Il giardino
immenso che incornicerá l'aperitivo. E con lui le nostre
chiacchiere. Qualche altra foto. L'allegria palpabile che non lascia
indifferente nessuno, neanche i camerieri. Accesi dibattiti su
avvenenza e orientamento sessuale di uno di questi animeranno, del
resto, buona parte della cena.
Il
nostro tavolo, d'altronde, é ben assortito. Lo distingue un testo di
Darwin sulle emozioni di uomini e animali. Sí, perché ogni tavolo é
abbinato ad un libro che ha avuto rilevanza nella storia d'amore
degli sposi. E' una delle loro tante idee geniali, che si somma alla
piantina di fragole data in omaggio agli ospiti, e alla chiavetta usb
usata come bomboniera. Rispetta a pieno i criteri della perfezione
elencati nel solito libro di Bianchini: esteticamente bella (bianca e
nera, d'altro canto), utile, e personalizzata. Chè non solo data ed
iniziali dei coniugi sono incise sul retro, ma all'interno é
custodita la presentazione pseudo-scientifica con cui ci hanno dato
il benvenuto poco fa. Nozioni vere di chimica e comunicazione hanno
in tale circostanza intervallato battute e siparietti, nel tentativo
di dimostrare in modo efficiente perché mai due persone si
dovrebbero legare per l'eternitá.
Qualunque
sia, in effetti, dev'essere un motivo valido. Lo capisco quando Piero
si avvicina raggiante al nostro gruppetto-gossip, per dichiarare
contento che “sposarsi é una figata, dovreste farlo tutti”. E a
me, d'un tratto, torna in mente una cosa che mi aveva detto sua
moglie ormai diversi anni fa. Era un discorso elaborato, e tuttavia
riassumibile in un solo concetto: si era resa conto di quanto la sua
vita sarebbe cambiata in peggio se avesse perso lui. Ed era stato
allora che aveva capito davvero quanto fosse importante. Capite? Sono
cose del genere a darmi ancora fiducia, nonostante tutto, nell'amore.
Perché
a vederli lí, adesso, nei loro abiti da cerimonia, ti contagiano nel
lieto fine tutta la loro immensa felicitá. Aprono le danze con un
Valzer da Fiaba della Disney, per poi lasciare che tutti si scatenino
in pista. E al liscio seguono i balli di gruppo. Ai balli di gruppo
il revival anni ottanta. Per poi finire con il trash odierno di quel
gangnam style che, peró, alle tre di notte e con la giusta
compagnia, riesce ad essere divertente un casino. Tra un passo e
l'altro, lanterne giapponesi sono volate nell'aria, illuminate dal
fuoco. Certo, almeno tre sono bruciate prima. Altre due hanno
rischiato di schiantarsi su un pino provocando incendi epocali. Una,
sul palo della luce, rischiando il black out. Ma sono dettagli. Il
fatto é che non c'é stato un momento- un solo,
minuscolo,insignificante attimo- di quella giornata in cui io non
abbia riso o sorriso.
E
sapete che c'é? Visto l'andazzo, non so se mai mi sposeró.
Tantomeno so quando o con chi. Se mai accadrá, so che probabilmente
sará diverso. Ci sará musica dal vivo, spazio per ballare
sevillanas, qualcosa che – come poi dev'essere- rispecchi me e
quest'eventuale povero malcapitato. Di una cosa, peró, sono sicura:
vorrei che tutti, in quell'occasione, uscissero con il cuore gonfio
di gioia e la mente piena di aneddoti. Esattamente come é accaduto a
me con il matrimonio di Laura e Piero.
C'è una certezza che mi
porto avanti da ormai più di vent'anni, ed è che le feste di Laura
sono sempre le migliori. Penso ai tanti capodanni a casa dei suoi
suoceri, col semifreddo alle meringhe e i giochi in scatola. I fuochi
artificiali e i trenini con le fusette. Al mattino dopo, scendendo a
fare colazione, trovavo gente addormentata su materassi gonfiabili. E
mi sentivo un po' come in uno spot del – che cos'era? - forse
Nescafè. Oppure la cena spagnola, con una mise en place da
far invidia a Miccio, e i miei capelli che vanno a fuoco per colpa
del lume di candela. Puzza di bruciato per tre giorni a venire. Poi
via, verso il pontile deserto su cui fingevamo d'essere in un
episodio di O.C. Per non parlare dei party per San Lorenzo, con gli
stuoini per guardare le stelle e gli aforismi scritti su cartoncini
da pescare ad occhi chiusi. E ancora, la festa del suo compleanno,
col mio vestito nuovo e le lezioni di bachata. Quella sera d'estate
in cui, congedati gli invitati, siamo rimaste a chiacchierare in
giardino. Nella vasca idromassaggio, con un bicchiere di mirto rosso
in mano. E poi come diavolo c'eravamo
riuscite, a stipare tutta quella gente nel
nostro primo appartamento parmigiano!? A scappare all'ira dei nostri
padroni- dirimpettai che ci svegliavano alle otto di domenica mattina
per chiedere se il terrazzo si fosse allagato? M'ero rovesciata
addosso la crema catalana, lo ricordo come fosse ieri. Perchè nelle
feste con Laura succedeva sempre qualcosa di strano. Come quella
volta al Jamaica Pub, chè io sembravo un gremlins causa
congiuntivite. O quando m'ospitava a Bologna. Il suo uomo preparava
la raclette e poi s'andava tutti al Transilvania, dove lei m'incitava
a scrivere sui bigliettini che cercavo un ragazzo
spagnolo.
E' che Laura ha sempre
assecondato i miei deliri. Laura, tra tutte le amiche, è sempre
stata quella che più mi fa sentire viva. Ci pensavo in treno,
diretta a Desenzano. E, prima del previsto, una lacrima già
affiorava. Non avevo alcun dubbio. Non l'ho mai avuto. Quella
certezza avrebbe spazzato via quelle di molti altri: perchè un
Matrimonio non dev'essere necessariamente noioso. Non se
gli sposi sono Laura e Piero.
E c'ha ragione Bianchini:
ci si potrebbe scrivere un libro, con tutti gli episodi in grado di
accavallarsi in una giornata sola. Lo capisco la sera prima, mentre
parlo con sua zia di vite future cercando di improvvisarmi uno smalto
a pois. Lei è andata con la madre a ritirare il vestito, ed è lì
che inizio a sentire tutto il peso di un evento epocale. Ancora una
volta, in compagnia di una delle mie più vecchie amiche, il resto
della mia vita sembra scomparire. Non esistono internet, il flamenco,
il lavoro, la Spagna, niente. Persino le
novità sul singolo di Dani Martín – di cui
puntualmente mi informa via sms un'amica francese – adesso, mi
sembrano di rilevanza nulla. Conta solo il matrimonio. Solo il fatto
che l'ultima sera da nubile abbia scelto di condividerla anche con
me. Ed é strano quanto la calma dei gesti quotidiani sembri
apparente per tutti. Forse piú per me che per la sposa. Un piatto di
pasta al pesto raffazzonato con gli avanzi in dispensa. Suo fratello
che telefona per parlare di completi, scarpe e fiori. Il modulo della
SIAE che compiliamo ridendo fino alle lacrime, in un gioco demenziale
di cognomi e caselle mancanti. Perché, fondamentalmente, un po'
sceme lo siamo.
Guardiamo
un film a tema, quella sera. Si chiama “le amiche della sposa”.
Una commediola leggera, che avevo giá visto ma non ricordavo. Ci fa
ridere, anche lei. Come il servizio fotografico alle mie unghie
“dotted” in perfetto abbinamento con le lenzuola di Betty Boop. O
il meteo che, da suo iPhone, ci informa che smetterá di piovere. O i
ricordi di momenti che continuano ad assalirmi, senza pietá. Come la
sera della mia laurea, che non si capisce ora che cosa c'entri. Lei
che mi diceva di non mettere i leggings, io che la incolpavo della
pelle d'oca. Mi pare si fosse parlato di nozze, anche quella volta.
Ma non ricordo proprio di chi, e neppure se sia vero. Mentre cerco di
farmelo tornare in mente, lei legge la lettera che le ho voluto dare.
Quella in cui, tanti anni addietro, mi raccontava il suo incontro con
Piero. Ci abbracciamo, ed io non dormiró per l'emozione. Il giorno
dopo quel silenzio non sará che un ricordo, tra invitati che
arrivano alla spicciolata, viaggi verso la stazione, capelli da
acconciare ed occhi da truccare, con il mio chignon che non sta sú.
Il
giorno dopo vivró uno dei matrimoni al contempo piú emotivi e
divertenti che si possano immaginare.
Perché,
ragazzi, le certezze restano certezze.
Laura
si é sposata con Piero, e le feste di Laura e Piero sono sempre
state le migliori.
Il primo disco solista di Leiva é un piccolo gioiello di cantautorato in lingua ispanica. Nonché, come a questo punto giá saprete, uno dei miei must musicali degli ultimi anni. Il look che vi si ispira non poteva prescindere dai due dettagli fashion che si litigano il protagonismo sulla copertina: il cappello a tese ampie da una parte, e gli orecchini dall'altra. Gli inconfondibili cerchi indossati dai Pereza lasciano, in Diciembre, spazio ad un gioiello pendente, di cui ho cercato (peraltro abbastanza invano) di trovare una copia il piú possibile simile. Il resto l'ha suggerito la silhouette in controluce che completa l'artwork su libretto e retrocopertina. Viene da lí il trench stretto sui fianchi. Sempre da lí, i pantaloni un po' svasati. I colori chiave sono quelli del nero e del marrone, che accompagnano un'estetica di malinconico vintage. Il tocco in piú? Un paio di classici Ray Ban: seppur non appaiano sul disco, sono uno dei punti cardine del look rock'n'roll che ha sempre contraddistinto il suo autore.
Appurato che: A) i matrimoni mi rendono melodrammatica e B) il bon ton sulle quote nozze dovrebbe essere più specifico, oggi è uno di quei giorni che proprio no. Dormi poco, con la crema catalana della sera prima che pare affezionarsi un po' troppo al tuo stomaco. Ti svegli nostalgica, sfornando frasi sdolcinate che però suonano bene. Le appunti su di un foglio, prima di dimenticartene. Ma poi il foglio lo perdi, e tutto ciò che ti rimane in testa è il grazioso mantra di una strofa de Il Cile. Vorrei dirti di me, dei miei orrori quotidiani, della bellezza che perdo sempre dal mio cuore e dalle mani. Appunto.
Allora sospiri. Afferri il telefono. E scopri che, all'agriturismo in cui dovresti alloggiare, di stanze singole non ce ne sono più. E' in quel momento che la nostalgia si trasforma in ansia. L'ansia in isterismo. L'isterismo in una vaga depressione. Perchè, se non fossi single, persino questo sarebbe piú facile.
Certo, sia benedetto booking.com. Ma il punto, a dire il vero, è che sono più stressata della sposa.
Ormai mancano solo cinque giorni alle nozze di una delle amiche più care. Cinque giorni. Meno di una settimana. E io devo ancora:
1. Capire dove dormire.
2. Deliberare una cifra equa per il mio contributo al viaggio degli sposi. Una che non mi faccia sentire pezzente, e che, però, neppure mi rovini. Per cercare consiglio mi son messa a spulciare le discussioni sui forum dedicati al matrimonio. Sul serio, non potete immaginarvi la quantità di arpie che frequentano quei posti. Gente che, discutendo dei suoi stessi invitati, ha il coraggio di sfornare commentini acidi tipo “non so se si sia reso conto che si tratta di un matrimonio e non di un festino di compleanno tra quindicenni”. O addirittura aprire discussioni incazzate su Yahoo Answer chiedendo se non sia il caso di insultarli per aver contribuito con "solo" 50 euro. E si presume che i soggetti sottintesi fossero stati in qualche modo personae care agli sposi. Mah. Insomma, non vi sto neanche a dire il livello di paranoia che mi han fatto raggiungere 'ste maledette. Possano ingozzarsi con gli avanzi della torta.
3. Comprare un cartoncino nero.
4. Fare le prove della manicure.
5. Fare le prove dell'acconciatura.
6. Fare le prove del vestito (non sia mai che, nel frattempo, io sia ingrassata)
7. Cimentarsi nella danza del sole. Perchè i collant, io, non ci penso proprio a metterli. Piuttosto mi iberno.
8. Ritoccare la depilazione, per ovvi motivi di cui al punto 7.
9. Trovare un momento per andare dalla parrucchiera.
10. Prendere una decisione definitiva sulle scarpe ( chiuse o sandali? Tacco 12 o tacco 8?)
11. Prendere una decisione definitiva sulle scarpe di riserva (non riuscirò mai a stare tutto il giorno sul tacco 12. E neanche sul tacco 8. Mettiamocela via).
12. Contattare le altre amiche per fare il bilancio sulla questione scherzi.
Il tutto entro Giovedì.
Inutile: i miei neuroni, a questa cerimonia, non ci arriveranno mai interi. Pregate per loro. E per me.
Maggio mi ucciderà. E non mi riferisco al vincitore di Sanremo Giovani.
E' che, di nuovo, i telefoni suonano il loro plurale in una costante stereofonia. Io mi sveglio nel cuore della notte, la fronte imperlata di sudore, urlando mentalmente: "Merda! Dovevo postare l'evento sul muro della Ubik". Muro, non bacheca. Perchè anche in piena notte, io, parlo itañolo.
Insomma, sono giusto un filino esaurita. Per darvene un'idea, l'altro giorno mia madre mi ha beccata mentre, uscita dalla doccia, appallottolavo chirurgicamente il pigiama. Dopo di che, con fare da professionista, lo lanciavo sul letto dalla soglia della mia camera. E, riuscita nell'impresa, me ne bullavo pure.
"Scusa, eh? Ma cosa stai facendo?", chiedeva lei, con una giusta dose di apprensione.
"Mi sto allenando."
"..."
"Sí, a lanciare robe sul palco".
"E cosa devi lanciare sul palco?!"
"Boh. Una groupie avrá sempre qualcosa da lanciare sul palco".
Dopo di che, visibilmente rassegnata, mi ha lasciata in uno scoppio di risata nervosa.
Del resto, io do sempre i numeri, prima di una presentazione. Figuriamoci se sono addirittura due.
Urge una premessa:
Jerez Caput Mundi. D'altronde poche cose,
oltre al MotoGP, potevano riunire nello stesso posto, periodo
e pretesto due tra le figure più
importanti di tutta la mia vita musicale. La
presenza di Cesare Cremonini era confermata. Quella di Dani Martín
l'immaginavo, piuttosto, in virtú dei non detti. C'erano foto
altrui, punti esclamativi, e la certezza vivida di quei rari momenti
in cui non nutri piú alcun dubbio sul futuro. C'é chi lo chiama
istinto. Per me,
é piú vicino alla premonizione.
Comunque,
un rapporto tecno- epistolare stava per farsi in qualche modo concreto.
Da anni, ormai, mi sono persa in questa strana missione di far da
intermediaria tra quei due. Li ho messi in contatto. Ho spacciato cd
qua e lá dai confini. Ho tradotto tweet (meglio di Google), filmato
concerti e riferito novitá. Decisamente troppo, per non sentirmi
almeno in parte responsabile. Jerez. Mi
ci stavo ossessionando, con questa maledetta Jerez.
Il circuito di Jerez de La Frontera in una foto di Cesare Cremonini su Twitter
Cosí,
nel tentativo estremo di deviare i pensieri, ho eletto Bologna a meta
del weekend. Scelta azzeccatissima, Ilaria,
complimentoni. Ché non solo é la cittá
di uno dei due, ma si da il caso che “La
Nuova stella di Broadway” insista col
perseguitarmi in ogni bar. Ormai la
malsopporto, quella canzone. Immagino dipenda anche da ciò
che rappresenta. Voglio dire: da un lato
rende ancora piú evidente la distanza che intercorre tra me e i fan
di Cremonini: loro, che l'han sempre
adorata in massa. Io, che ho sempre pensato che nel disco ce ne
fossero di molto migliori. E' una distanza
che ho creato io stessa, a base di kilometri e silenzi, profonda
troppi anni per poterla colmare. Dall'altro
lato, peró, il
fatto stesso di dire che “nel disco ci sono brani molto migliori
del singolo” é
quanto di piú tipico nell'indole di un
fan.
La
scelta di Bologna, ad ogni modo,
era in realtà
mossa dal pretesto di una mostra. Organizzata in collaborazione con
La Caravella, prometteva quadri ispirati a trenta dei loro libri. Tra
questi, ci sarebbe stato anche il mio. Si
sa: MotoGP o meno, io sono curiosa.
Cosí,
ho preso il mio bel trenino ciuff (dove
bello e
ciuff sono
da intendersi come licenze poetiche), ho
infilato le cuffie, e sono finita nel mezzo
di una gita scolastica delle scuole elementari. Insomma,
é universalmente noto che trovarsi nello
stesso vagone di una gita scolastica é indice di imminente sventura.
Oltrettutto, ciascuno di quei bimbi era
inquietantemente dotato di device tecnologici mica da ridere. Touch
screen. Cover coi brillantini. Due console nintendo a testa, oltre
all'obbligatorio
cellulare. Ne ho addirittura visto uno con l'Iphone. Giuro. Un iPhone
vero, mica una copia approssimativa: lo shock mi ha spinta a
controllare bene. Quello smartphone lí, di ultima generazione, costa
700 euro come minimo. E una coppia di genitori ha pensato bene di
affibbiarlo al loro figlio di otto anni. Capite? Otto anni. Che al di
lá del duplice insulto a crisi ed educazione, a me sembra anche un
tantino pericoloso. Cioé, basta un tocco per accedere ad Internet.
All'intera, gratuita, disponibile porcheria che si trova su internet.
Poi quando mi vengono gli istinti protettivi io mi spavento anche,
dannazione!
E la
sventura, poi, é lí ad un passo. Capisco quale sia non appena sento
l'esigenza di ordinare un caffé. Dove per
caffé si
intende chiaramente “usare
il bagno”. Tempo di chiedere alla cameriera se ci sia
bisogno delle chiavi, e una tizia mi frega
il posto. Poco male, penso.
Uscirá. Invece, passano 10 minuti. Un quarto d'ora. Mezz'ora. La
fila che si forma alle mie spalle si fa lunga e insofferente.
Qualcuno bussa. Nessun rumore.
“Ma
é ancora dentro?”, chiede la ragazza al banco mentre sparge
scagliette di cioccolata su di un cappuccino. Alzo le spalle. Una
donna impreca. E' che ormai ho giá pagato, altrimenti me ne sarei
giá andata via. Poi la tizia esce, finalmente. Solo che non scherzo,
se dico che la sua faccia ha assunto colore grigio.
La
puzza di vomito che mi assale non appena apro la porta scusa il suo
ritardo, ma anche il mio impulso a volerla imitare. O linciare.
Scegliete voi.
Mi rifaccio
poco dopo, ipnotizzandomi davanti a
un musicista di strada. Ha parcheggiato un talento indescrivibile a
due passi dal Nettuno, ed io mi perdo nella sua voce perfetta. Negli
accordi modificati. Nel vibrato della chitarra che imbraccia. Lui non
lo sa, che sotto a questo cielo implacabilmente azzurro, mi sta
ridonando il senso del mio amore per la cittá. E il sentimento si
rafforza ancora, mentre mi perdo tra i labirinti ben arredati
dell'infinito consumistico di Scout. Raggiunge quasi l'apice mentre
mi accorgo che il sacchetto muccato in cui avvolgo i miei acquisti
odora di vaniglia. Diventa apoteosi mistica tra gli scaffali del
Disco d'Oro, copia ridotta ma quasi esatta del mitico Killer
Discos di Madrid. Madrid a Bologna. Tanto per
voler deviare i pensieri.
E,
se mai ve lo steste chiedendo, tra un episodio e l'altro raggiungo
anche la porta ancora chiusa della Galleria De Marchi. Sull'uscio, un
uomo cordiale, capito chi sono, si scusa con me.
“Avrei
dovuto dipingere io il quadro ispirato al tuo libro. Solo che, sai,
era troppo difficile”
Sul
momento non capisco. Annuisco con lo sguardo perso nel vuoto. Mi
asciugo il sudore dalla fronte. E corro a rifarmi il trucco su di una
panchina. Siamo soltanto a Maggio, accidenti. Possibile che il clima
d'Emilia debba sempre e comunque esagerare?
Mezz'ora
dopo, quella porta si é aperta. L'ho varcata, leggermente
emozionata, assieme a Rocco e Valeria. Mi hanno raggiunta per
l'occasione, facilitati dalla residenza e forse anche un po' dal
buffet. Io lo sono, almeno. Quelle pizzette lí sembrano invitanti
un bel po'.
Mi
lancio in un veloce giro d'ispezione. Passo in rassegna le copertine
dei libri. Le copie di #Odissea
mi urlano “mamma!” dai tavoli, ma nessuna di loro appare
fotocopiata sulle pareti bianche. Sento una lievissima fitta di
delusione, che però scaccio via subito. In fin dei conti, mi
rimangono pur sempre le pizzette. Mi ci sto giusto avventando, quando
una voce femminile mi riporta alla realtà.
“Dovrei
parlare con l'autrice dell'Odissea”, dice, facendo rivoltare Omero
nella tomba. Alzo la mano come fossi a scuola. Poi, biascico qualcosa
che vorrebbe essere una battuta. C'entra con la pizzetta. Comunque,
nessuno ride.
La
donna si scusa per l'assenza del quadro ispirato alla mia opera.
Qualcun altro dice di sentirsi in colpa perchè sono l'unica autrice
presente. Mi scattano foto a ripetizione. Giro gli occhi alla ricerca
dei flash. Abbraccio persone. Afferro biglietti da visita. Cerco di
dare un senso a frasi su una mostra a Viterbo e sulla mia
disponibiltà. Ci sono articoli annunciati e troppa sete per il vino.
Ci sono sorrisi. Ci sono penne in borsetta, e cartoncini su cui
annotare numeri. Ma, francamente, non è che in tutto questo io
capisca granchè. Anche perchè il mio unico pensiero, al momento, è
la pizzetta. Sembrava buona, cribbio. E io l'ho abbandonata. Mi
sembra quasi di sentirla piangere, poverina.
Quando
mi libero dalle public relation, ogni avanzo di cibo è ormai stato
spazzolato via.
Sinceramente affranta, compro un magnete a forma di tortellino in un bar barra edicola la cui proprietaria somiglia in modo incredibile ad una mia prof dell'Universitá. Questa volta é mia madre, a ordinare un caffé. E, mentre l'aspetto fuori dal bagno, un cameriere mi investe facendo la curva ad alta velocitá. "Oddio, scusa, non ti ho vista!". Per radio, manco a dirlo, suonano i primi accordi de La Nuova Stella di Broadway.
La morale é
che finisco collassata sull'intercity del ritorno, dove tra un
microabbiocco e l'altro scrivo all'assistente di Dani qualche frase
incompiuta sugli eventuali disastri apocalittici derivati
dalla collisione di due colonne sonore.
Per tutta
risposta, lei mi scrive che, proprio quel giorno, avevano
incontrato Cremonini. E mi lascia così, proprio
come io ho lasciato la pizzetta. Inerte, a chiedermi cosa mai quei due, a Jerez, potranno essersi detti. Dubbio che mi attanaglierá per tutti i secoli dei secoli, amen.
Ho disegnato troppi cuori a bordo pagina per pensare di poter rinunciare a sognare.
Mi sento troppo a mio agio nei mercatini etnici perchè il viaggio smetta di essere un opzione.
Dico sul serio: c'è un che di patologico in questa mia allegria.
L'odore speziato della cucina etiope. Le esse che si scordano di uscire dalle bocche dei messicani. I fiori nel mojito. La sangría. Quella cacofonia di voci, accenti e musiche d'altrove che mi spinge a cercare in piena notte qualche frase che sia in grado di poterla raccontare. Frase che- manco a dirlo – non trovo.
(Foto: Messaggero Veneto)
E poi, come se l'ethnic festival non fosse giá abbastanza, ci si mette pure quel Torneo.
Nereo Rocco. Delle Nazioni. Mundialito. Chiamatelo un po' voi come vi sembra opportuno.
A me interessa il concetto. Ragazzi sotto i diciott'anni che da tutto il mondo si radunano a Gradisca d'Isonzo. Cercano gli occhi degli osservatori calcistici di serie A. Inseguono, anche loro, un sogno. Chè, per questa cornice affastellata di luci, sono passati Raul, Stankovic, Pirlo, De Rossi, Albertini, Shevchenko, Maicon, Cambiasso. E, più recentemente, anche Giovinco, Marchisio, El Shaarawi...tutti questi ragazzini sperano che, un domani, a completare l'elenco ci sia il loro cognome.
Allora gliela leggi in faccia, l'emozione. Sfilano tra gli applausi della gente. Inni. Bandiere.
Qualche politico che, in un inglese vagamente biascicato, dichiara ufficialmente aperta la manifestazione. Poi, Fratelli d'Italia, bla bla.
Mi viene da piangere. Ultimamente, sará colpa del pre-mestruo, mi viene da piangere per qualunque idiozia. Certo, non che 'sta profusione di matrimoni aiuti. Ma, comunque...mi commuovo, ecco. Di fronte alla solenitá del momento, all'idea di un futuro da scrivere, a questo sentirmi senza razza, credo o etnia. Perché, che volete che vi dica? In certe circostanze fa star bene, l'illusione di racchiudere il mondo dentro ad un circuito di gazebo. Due ragazzine tiratissime mi passano accanto. Sorrido.
Quando ero al liceo, il torneo Nereo Rocco era l'evento clue della primavera. Un'invasione di ragazzi bellissimi, nostri coetanei, da guardare con la bavetta alla bocca alla fermata del bus. Tiravamo anche le conclusioni su quale squadra ospitasse i piú carini. E, ci crediate o no, era quasi sempre una lotta dura. Quel torneo ci agitava gli ormoni piú delle rare assemblee congiunte col liceo scientifico. Il che, vi assicuro, é tutto un dire. Lo ricordo con lieve nostalgia.
Certo, all'epoca i calciatorini non si sentivano ancora in obbligo di sfoggiare creste assurde in virtú del loro ruolo. E, tuttavia, la domanda rimane: gentili signori di Gradisca d'Isonzo, ma un torneo over 25, mai? Magari con l'aggiunta di Grecia e Spagna, se é possibile. Chè la seconda squadra é l'assenza piú sentita, e alla prima potrei vendere sulla fiducia un po' di copie del mio libro.