martedì 26 febbraio 2013

"Solo due fiocchi".


Promemoria: mai viaggiare a Febbraio. O, quantomeno, evitare di pronunciare con tono spavaldo che “tanto son solo due fiocchi” appena scesa alla stazione di Mestre. Cristiddio, quand'è che imparerò dalle esperienze? Chè, due ore dopo, la pista del Marco Polo è sotterrata da una coltre di neve. Non meno di cinque centimetri, di cui osservo l'incremento con aria via via sempre più preoccupata. C'hanno un bel da fare, tutte quelle macchinine. Salano. Spalano. Lampeggiano d'arancione, a tema con i display. Ed è un mantra di Delayed. Dling Dlong. Turisti inglesi che scattano foto a tutto spiano. Probabilmente invano, visto il riflesso dei lampioni sul vetro. Ma contenti loro... L'autobus che dovrebbe condurci all'aereo, nel frattempo, tarda ad arrivare. L'hostess, al gate di imbarco per Parigi Orly, ostenta sorrisi autentici quanto una moneta da 6 euro. La vedo che è tesa. Ne osservo l'andirivieni sbilenco su un tacco dodici che sono quasi certa leverebbe volentieri. Ne leggo il labiale. “Non mi risponde al telefono, non so dove accidenti sia”. Il caos. Una coppia di argentini, nella beata ignoranza di una lingua straniera, chiacchierano tranquilli del più e del meno. La giovane si riattacca al telefono. Guarda oltre la vetrata. I fiocchi, quei maledetti due fiocchi, scendono intanto sempre più copiosi.



Mezz'ora dopo, il suo sollievo annuncia metallico l'inizio dell'imbarco. Tre quarti d'ora dopo, sto imprecando mentalmente contro i due coniugi francesi che il destino ha scelto come miei vicini di sedile. Disarmante, la loro flemma. Dieci minuti buoni per sbottonarsi il cappotto, non so se rendo l'idea. E poi via, a piegarlo minuziosamente prima di riporlo nella cappelliera. Manco dovessero esporlo su una mensola de La Fayette. Keep Calm, della serie. Keep Calm. Anche se, a causa della loro lentezza, sto drammaticamente bloccando tutto il traffico di passeggeri alle mie spalle. Qualcuno, rimasto troppo indietro per varcare la soglia di quel boeing surriscaldato, accuserà probabilmente i sintomi di una polmonite. E maledirà me. Che sto maledicendo loro. Che staranno maledicendo...boh, forse il cappotto che non si piega bene.

Un'ora dopo, una nube di antigelo ci avvolge accompagnata da un rumore assordante. Sentite scuse dallo staff che – naturalmente – non parla italiano. “It's for your safety”, giá giá. Ma intanto ho già speso cinque euro in sms internazionali, e perso in modo inevitabile l'ultimo bus diretto a casa di Céline. Due ore dopo, indovinate? Sarò ancora ferma lì. Sempre più rassegnata, a chiedermi quanto diavolo possa costare un taxi. Alla faccia dei soliti due fiocchi.

L'annuncio del decollo imminente arriva come un sollievo inaspettato. Un calo di tensione emotiva porta a galla una stanchezza che non sapevo d'avere. Sì, insomma, m'abbiocco all'istante. Ma proprio di brutto, eh? Credo di sognare qualcosa di strano in merito alla tour eiffel e gli eschimesi. In ogni caso, a risvegliarmi è la voce del comandante.

“Siccome l'aeroporto di Orly chiude alle 23.30, potremmo essere costretti ad atterrare a Charles de Gaulle”.

Soppeso mentalmente le parole.

Magari ho capito male.

Aspetta, ora lo ridice in francese.

Non che lo capisca, il francese.

Ma, ecco...quelle due parole...

Orly, aeroport, fermé, charles de gaulle.

Merda. Merda. Merda.

Ho un'immagine nitida della mia amica, intenda ad aspettarmi in un terminal deserto metre io, in terra ostile, cerco di capire come accidenti raggiungerla. A peggiorare il tutto, la hostess scuote le spalle. Mica lo sa, se ci concederanno i trasporti da Charles de Gaulle ad Orly. Chiudo gli occhi. Forse, se mi riaddormento, gli eschimesi mi salveranno. O forse no. In ogni caso...

“Comunque dovremmo riuscire ad atterrare alle 23.30 in punto ad Orly”, insiste il comandante. “Farò quanto in mio potere per riuscirci”. Ed, immancabilmente, diventa il mio eroe.

Perchè sì, il taxi mi costerà effettivamente più del volo low cost; ma alla nostra destinazione originaria, alla fine, ci arriveremo. Dopo un volo durato un'ora scarsa, anziché l'ora e mezza annunciata. Dopo una discesa a perdifiato che mi renderà sorda fino al mattino seguente. Dopo un trionfale “visto? Tutto è possibile!” a cui quel brillante Shumacher dei cieli affibbierà un tono tra il fiero e il divertito. Ad accompagnarlo, gli applausi dei miei vicini di posto, che non hanno battuto ciglio durante tutta la durata del viaggio. Salvo scomodarmi cinque volte per andare al bagno, ovvio. Dannazione, è così difficile tenerla per un po'?

E quindi, niente. Fate caso a me: non viaggiate a Febbraio. Perchè poi potreste ritrovarvi nello spiazzo di Les Invalides, sferzate da un vento siberiano, a ricordare da vicino i 13 gradi sottozero di una Vienna cancellata dai punch. Sarete talmente sconvolte da chiedervi chi mai ve l'abbia fatto fare, di uscire a far del turismo. E inizierete a dubitare della reale esistenza di quei tizi vestiti da M&M's che ballavano il Gangnam Style fuori dall'Hotel de Ville. Meno male che gli ho fatto un video. Altrimenti avrei probabilmente optato per l'auto-ricovero modello Perception. O l'elettroshock d'ispirazione Homeland. O...sì, va bene, guardo troppe serie. Che poi speravo di incontrare il collega figo di Jo, ma rien de rien.

Resta il fatto che poi, in quello spiazzo di Les Invalides, ti viene in mente di farti fare una foto. Ci metti tre anni, a scegliere la preda. Chè quelli sono troppo anziani. Questi qui vanno di fretta. Questi hanno l'aria un po' troppo sconvolta, e quest'altro sicuro che poi attacca bottone. Finalmente trovi quello giusto, un tizio solitario col cappello di lana ben calato sul cranio. E allora un nuovo dubbio inizia a farsi strada in fondo alla tua mente assiderata. Sei in compagnia di due francesi, tra di voi comunicate in spagnolo, e in giro sono tutti turisti. Quale lingua usare? Dopo un veloce referendum si decide per l'inglese. Audrey parte in quarta.



“Excuse me, cold you ta...”
“Qué queréis, una foto, no?”.

Ecco, appunto.

“Sí, gracias! Qué guay, eres español! De dónde?!”
Barcelona, y vosotras?”
No, noi siamo di qui.”
Sullo sguardo del tizio cala un'ombra di (neanche troppo) malcelato scetticismo.
Sí, ma io invece sono italiana.”
Comunque tra noi parliamo in spagnolo”
....”
.....”
Beh, niente, vi faccio la foto”.
Giuro che si vede proprio, che c'ha voglia di scappare urlando.

Due scatti per sicurezza. La sua cartina che gli sfugge dalle mani. La catena delle maledizioni inevitabilmente sul punto di coinvolgere anche lui. Poi ci saluta in catalano. Adeu. Tanto per.

Solo due fiocchi”, insomma. Peró, dai, ne é valsa lo stesso la pena. In fondo ho reincontrato un'amica dell'Erasmus che non vedevo dal 2009. Ho riassunto in cinque minuti le mie vicessitudini degli ultimi tre anni davanti ad un caffé – visto il freddo- viennese. Ho respirato un po' di Spagna nella sala di circense memoria che ospitava il concerto degli Estopa. Sopportato un ubriaco molesto. Scoperto che David, dal vivo, é caruccio mica poco. Anche se, di questo, parleró in un post apposito. Voglio dire, del concerto. Non della sua scarsa fotogenicitá.



Mi sono fatta anche quattro risate al pensiero di chi spende la bellezza di 30 euro per un piatto di spaghetti pomodoro e basilico soltanto perché il ristorante é quello di Armani a Saint Germaine. Ah, e poi ho rischiato di firmare il mio libro nel caffé dei letterati piú storico della cittá. Dove le file per cercare un tavolo arrivano fin fuori e di bohemienne non c'é piú niente, visto il prezzo del caffé. Ci sono entrata. Ho guardato il menú .Sono ri-uscita. Poi ho fotografato la frase piú azzeccata del mondo sull'edificio di fronte, pensando che il mio Ulisse, se avesse preso l'aereo, avrebbe avuto un viaggio tipo il mio.



Non viaggiate a Febbraio. Ma, se proprio dovete, siate almeno pronti a riderci sú. Perché con tutti 'sti aneddoti, se mai avró nipoti, sono certa che non si annoieranno mai. 

mercoledì 20 febbraio 2013

Parole d'altri (e viaggi miei).

Porta un bambino in un negozio di dolci. Digli che può assaggiare tutto. Proprio tutto, senza spese e costrizioni. Poi sarò anche troppo stanca per i paragoni ad effetto, ma da quando ho Spotify mi sento così. Ché i finlandesi avranno pure denti sanissimi, ma sono gli svedesi a spaccare. Insomma, pensateci: scrivono best seller mondiali, mangiano salmone e, dopo tutti questi anni, siamo ancora tutti qui a cantare “Mamma mia” degli Abba. A chiunque altro sarebbe bastato. Invece loro, non contenti, decidono di sfornare l'Ikea e Spotify. Cioè, le due migliori invenzioni al mondo dopo internet e l'anestesia. Questi ne sanno, ragazzi. Altrochè.

Per cui, niente. Domani parto per un weekend parigino. Mi aspettano due amiche, gli Estopa e un paio di crepes come si deve. Non volevo partire senza salutarvi, ma ho i neuroni stremati dagli eccessi cerebrali di una giornata intensa. Ergo, parlo con parole d'altri. Di parole d'altri, anzi. Del miele e del vento che sanno di Canarie in ogni testo degli Efecto Pasillo. Un disco energico, dal ritmo incalzante. Di quelli che ti rendono euforica se balli e produttiva se lavori.




Parlo – come dagli ultimi due post avreste potuto prevedere – de Il Cile. Chè mi piacciono anche le due inedite, quindi è proprio la fine. Mi salva solo il fatto che mi vengono i complessi di inferiorità all'idea di scrivergli sui social network. E così, per una volta, almeno un po' di distanza la riesco a conservare. Comunque, nello specifico, direi che la frase "scusami se non riesco piú a difendermi dal ruggito dei tuoi occhi" vale giá da sola i due brani. Ma, nel complesso, é forse la rabbia de "la tortura medievale" a piacermi di piú. 




Parlo dei Fun, perchè il loro “Some Night” è un album pressochè perfetto. Lo è sin dall'introduzione. Da quel “"Tea parties and Twitter, I've never been so bitter. And you, why you wanna stay?" che tanto mi si addice. La mia preferita è Why am I the one, ad ogni modo.



Ve la lascio. Mi rilasso. E...ci sentiamo tra un po'.  Se ci si pensa, comunque, é giá quello che ascolto a rendermi bipolare.

domenica 17 febbraio 2013

Ancora (e poi basta) su Sanremo.


In realtà c'entrano poco, le canzoni. Dirlo suona triste. In parte contraddice le stesse priorità che appena l'altro giorno chiedevo di fissare. La coerenza perdoni l'oltraggio: è solo che mentire a se stessi a me non sembra mai una buona idea.

Sanremo è una bolla, è questo il punto. Un mondo parallelo. La realtà virtuale che, se non integralmente, riesce comunque ad assorbire buona parte di me. E' così che lo vivo. Sulla pelle, come tutto. Come il cambio di abitudini e di orari che, una sola volta all'anno, mi impone il prime time. Il Festival è l'argomento di cui tutti parlano. Il tema di conversazione comune che, per una settimana, fa di una Nazione una sola famiglia. I problemi ed i bisticci chiusi dentro ad un cassetto. In un'altra stanza. Lontano da quest'unico divano comodissimo su cui, a conti fatti, tutti noi sediamo. E' la strana tradizione da lustrini e melodramma che, ad uno straniero, non sapremo mai spiegare. D'altro canto, io faccio fatica a spiegarlo pure a voi. Fatico a chiarirlo, anzi, finanche dentro me. Insomma, qual è la ragione per cui, se posso, non me ne perdo mai un'edizione? Perchè,al di là della brillante o penosa riuscita, finisce col piacermi in ogni caso?



Ci ho riflettuto. E forse c'entra il fatto che, per una settimana all'anno, io riesca a riconciliarmi con la mia italianità. Che è l'unica occasione, questa, in cui mi sento calata nel contesto. Dividersi tra due Paesi, in fondo, è un po' una sottocategoria della bipolarità. Implica un retrogusto costante di non appartenenza. Una continua parzialità di fuori luogo. E con Sanremo...beh, con Sanremo sparisce. Così, di botto, come una magia. La magia che, in questa strana urgenza di tifare, mi porta sempre ad invaghirmi di una qualche nuova realtà. E non importa che sia una passione nata ex novo o, come in questo caso, il mero rafforzarsi di una che era già in corso. Mi era successo già con Renga, tra parentesi. Non era neanche poi moltissimi anni fa. No, il punto è che poi mi vien voglia di varcare il limite esterno. Di entrare nel primo cerchio, per così dire. Chè voi non lo sapete, ma ho tutta una mia teoria sociologica sul mondo groupie. Ricorda un po' i gironi danteschi, e non smette mai di darmi ragione. Magari prima o poi ve l'illustro, assieme all'Infografica a cui già accennavo. E, insomma, niente. C'è la novità. L'euforia. L'eclissarsi momentaneo del mondo reale.

Fino a che, prima o poi, il sipario cala.

Ebbene sì, signori, Sanremo si è chiuso. La bolla è scoppiata. Prima che me ne accorga, tutto è già tornato come prima. I dibattiti politici. I biglietti d'auguri. La routine del penultimo cerchio, dove tutti sparlano di tutti e il gossip resta il pane quotidiano. Dove di amici veri ne puoi trovare pochi, e la musica – ahimè- a quanto pare importa sempre meno. Ad aspettarmi al varco, adesso, c'è una settimana tutta intrisa di post it. Dalla disperazione, quasi quasi guardo pure Domenica In. O magari mi stordisco di video de Il Cile, tanto per darmi l'illusione che , in quella realtà virtuale, un po' ci sono ancora. D'altronde uno che chiama i fan ciloski non può che starmi simpatico di per sé.

Forse, però, non ne vale la pena. Forse, la vita vera, è meglio tornare ad affrontarla subito. Tanto domani è Lunedì, sarebbe in ogni caso dovuto accadere.

Prima, però, vi voglio dire del verdetto. Perchè mi ha soddisfatta pure quello, a ben vedere. E l'ha fatto in tutte le categorie. Oddio, gli exit poll di casa mia davano esito diverso. Gazzè vincente tra i big, Malika Ayane seconda. Ma anche così, per una volta sono in tutto e per tutto d'accordo con la giuria. Perchè Mengoni è bravo, poche ciance. Perchè Il Cile, i migliori testi, ce li ha davvero. E non lo dico perchè sono di parte (tra l'altro,sottolineerei che ha vinto anche il premio Assomusica per la miglior esibizione).


Il Cile é stato premiato da Veloso. Cioé, un brasiliano che premia il Cile, capite? America Latina Unita.


Perchè se non avessero dato un premio della critica a Rubino mi sarei seriamente incazzata. Perchè il brano di Maggio mi mette di buon umore. Perchè, a chi dirà che Elio meritava di più, sarò ben lieta di controbattere il no. Sono dei virtuosi, certo. Hanno avuto un'idea geniale e innovativa, altrettanto certo. In quanto a tecnica, probabilmente, non li batte nessuno. Eppure, per come la vedo io, la loro “canzone mononota” non è un brano che mi metterei ad ascoltare in loop sull'ipod. Né uno che canticchierei per strada. Se Sanremo è il festival della canzone, allora, era giusto che vincesse un prodotto radiofonicamente in grado di chiamarsi tale. Il riconoscimento a tecnica ed idea, d'altronde, agli Eelst è arrivato in ogni caso.



E, tra l'accento madrileno del corvo di Rockefeller e Quizás, quizás, quizás cantata da Bocelli, anche qualche italospagnolismo, alla fin fine, c'é stato.


Cliccate per godervi i video, intanto che io mi riconcilio con la mia esistenza bipolare.


giovedì 14 febbraio 2013

Sanrementino.


Tra i santi di oggi, scelgo Sanremo. Non che quest'anno mi sia andata bene: per trovare un italospagnolismo all'Ariston dovrei tutt'al più aggrapparmi ai suffissi in “able” di un improponibile Crozza. Perchè non è per la politica, signori. Certo, è vero che se ne parla fin troppo per trovarla incastonata anche in uno show musicale. Ma non è questo, no. Il punto è che a me Crozza non fa ridere affatto. E poi la dobbiamo smettere, di concedere agli ospiti di allargarsi in questo modo. Sto guardando un festival, mica un monologo su La Sette. Insomma, chiamateli. Chiamate lui, chiamate il coreano di Gangnam Style, chiamate chi diavolo vi pare. Ma cercate di ricordarvelo, per una volta, che i protagonisti della serata non dovrebbero in nessun caso essere loro.



Scelgo Sanremo. Sono single. Poteva forse essere altrimenti? Solo che, questa volta, devo farci sopra un post normale. Beh, sempre che si possa considerare “normale” qualcosa che parli del festival senza abbondare in critiche. Perchè, al di là della parentesi citata, quest'anno la Kermesse mi sta piacendo davvero.

Ottimi conduttori. Splendida scenografia post-atomica con le scale componibili a meritarsi da sole la mia stima. Ritmo sostenuto, salvo rare eccezioni. E, soprattutto, una media di canzoni stranamente buone. Secondo me, almeno. Ché, a giudicare dai commenti su twitter, i miei gusti non coincidono in nulla con quelli di critici ed esperti del settore. Dovrei ragionevolmente concluderne che non ci capisco una mazza, ed è probabile che corrisponda al vero. Non per questo cambio di opinione, però. Giudico con la pancia. Con il cuore. Giudico in base alle emozioni che dalle orecchie mi arrivano all'anima. L'ho sempre fatto, e non ho intenzione di cambiare ora. Sono un'ascoltatrice media, nient'altro. Un'innamorata della musica a San Valentino. E allora questi sono i brani che ho apprezzato di più. I vostri quali sono?

Max Gazzé – Gazzé aveva le due canzoni migliori di tutto il festival. Di quella eliminata, mi ha affascinata la frase “Potrei farti da fermaglio per capelli se per sbaglio ti venisse voglia di tenerli su". Di questa rimasta in gara, il ritmo incalzante che un po' mi ricorda Bregovich. In fondo l'ho sempre detto: c'è un'anima zingara in me.

Il Cile – A questo punto devo aprire una parentesi. Perchè, sì, è da ieri sera che canticchio senza sosta “le parole non servono più”. Eppure, credo che questo brano non sia neanche lontanamente all'altezza delle capacità di Cilembrini. Un po' troppo affastellato di aggettivi. Lontano dalla perfezione endemica di uno dei miei dischi preferiti. Al di sopra della media, senza dubbio. Lui lo è sempre. Però, anche se bellissima, non è la sua miglior canzone. E ora che ho finto di essere obiettiva posso anche dirvi la verità. Perchè, cacchio, io del Cile sono ormai diventata a tutti gli effetti una fan. Non so precisamente come o quando sia successo, ma il mio grado di ammirazione nei suoi confronti è arrivato a un livello inquietante. Dove per inquietante intendo che sono riuscita a trovarlo affascinante anche con il look che ha sfoggiato ieri sera (a tal proposito, ricordatemi che vi devo postare un'infografica). Cioè, capite la gravità? Che poi secondo me gli è giunta voce che mi piacciono quelli con la barbetta. Solo che io intendevo barba di uno o due giorni. Insomma, un filino, senza esagerare. Ma magari non mi ero spiegata bene. Comunque, vabbè. Sono disposta a sorvolare persino sugli stivaletti. Il fatto è che essenzialmente non sono obiettiva. Che bramo con tutta me stessa di andare ad un suo concerto. E che, come diretta conseguenza, sono incazzata come una iena per la sua eliminazione. A prescindere. Cilembrini AiLaviu e voi giurati siete brutti e cattivi. Ecco.




Renzo Rubino – Dai, ammettetelo: Rubino che si veste di rosso rubino fa ridere. Comunque bella voce, canzone ben costruita, testo non banale come, invece, ci si sarebbe potuti aspettare dalla scelta di un argomento un po' ruffiano. Insomma, bravo. E brava anche Irene Ghiotto. E bravi anche i Blastema, con uno degli Emo di Zelig come vocalist. Scherzi a parte, i giovani che si sono esibiti ieri superavano in qualità gran parte dei big. Devo ancora decidere se sia più rassicurante o deprimente. Però they rocks. Tutti e quattro. Ora aspetto al varco i colleghi di questa sera.

Almamegretta – Non hanno scritto una canzone “per Sanremo”. Sono rimasti fedeli al loro stile, senza farsi influenzare dalla cornice. Il che non é per niente poco.

Simone Cristicchi – Quest'uomo è un genio. Ok, riascoltando l'esibizione devo ammettere che ha stonato un po'. Però, se il brano eliminato non mi aveva convinta, “La prima volta che sono morto” ha il testo più originale del festival. E i mix equilibrati di sorrisi e lacrime mi riescono sempre a conquistare.




Simona Molinari e Peter Cincotti – Un po' jazz e un po' anni cinquanta, il duetto mi ha sorpresa gratamente. Sarà che non mi aspettavo molto. O sarà che loro ci sanno fare.

Elio e le storie tese– Degli “elii” mi piace il fatto che si divertano sul palco. Perchè si vede che lo fanno. Giocano con la musica, ci infilano dentro un po' di teatro, prendono in giro l'ambiente che dà loro da mangiare. E l'unico motivo è che gli piace farlo. Lo so che sembra un paragone assurdo, ma “la canzone mononota” mi ricorda il motivo per cui ho scritto #Odissea: per il gusto di farlo. Per dirlo alla spagnola, per “pasármelo bien”. Evviva la gioia, allora.

Modà I “Modá” fanno i Modá. Niente piú e niente meno. Il brano in gara é una copia quasi perfetta di un paio di altre loro canzoni. Ma finché copiano se stessi, se non altro si puó definire “stile”. Canzoncina radiofonica come tante altre, con alcuni passaggi del testo che peró mi sanno affascinare. "Se solo avessi un po' più tempo per viaggiare frantumerei il mio cuore in polvere di sale per coprire ogni centimetro di mare", per esempio. 

Malika Ayane – Il brano che é stato eliminato portava voce e accenti del Sangiorgi piú contorto. Quello che é passato é piú orecchiabile, ma forse nell'interpretarlo lei ci si é impegnata meno. Da riascoltare.

Annalisa A volte mi secca ammetterlo, ma dai talent show escono anche delle voci carine.

Marco Mengoni A me di Mengoni piaceva un sacco l'altra, di canzone. Quella scritta dalla Nannini. Ma, l'ho detto: non vado d'accordo con la giuria. Questa é un po' piú banale, ma ti si incolla in testa per le eternitá a venire. A meno che, ovviamente, non intervenga Il Cile. 

lunedì 11 febbraio 2013

...E, proprio alla fine, i Grammy.


Sanremo. Carnevale. San Valentino. Come se non bastasse, ci si mette pure il Papa. Il mio blocco creativo, in queste circostanze, sa piuttosto di quiete prima dell'uragano. E lo so, lo so: si dice “della tempesta”. Solo che a me suonava meglio, uragano.

Perciò me ne sto qui, in attesa della neve. Con un inquietante essemesse della vodafone a informarmi che, se voglio, posso conoscere in anteprima Pino il Pinguino. Molto gentili, non c'è che dire. E, intanto, anche quest'anno, i miei propositi carnascialeschi sono belli che andati in fumo. Insomma, avrei voluto puntare sull'auto-promozione. Vestirmi da antica greca, lanciando evidenti messaggi subliminali ogni qualvolta avessi impugnato il cellulare. Magari mi sarei corredata di attrezzi da cucito, a tratteggiare un po' di più Penelope. E però no: il freddo, alla fine, ha congelato le intenzioni. Certo, un peplo candido a lasciare scoperta la spalla sarebbe stato perfetto per la discoteca. Molto secsi. Ci avevo pure pensato, non crediate. Solo che sono ormai irrimediabilmente anziana inside. Una da tea caldo con le amiche in un bar del centro. Di quelle, per capirci, che il sabato sera scrivono: “senti, io salterei, ché sono k.o con i dolori mestruali”; e si sente rispondere, con estremo sollievo: “ah sì, sì, chi ha voglia di uscire? Io son già in pigiama”. Una che Lunedì c'è un'altra festa. Già, ma “devo lavorare”. E poi si sa che dei tendoni riscaldati urge pur sempre diffidare un po'. Sapete, i reumatismi... Oh, al diavolo, che mi è capitato? Vecchia. Vecchia proprio. Sbalzi d'umore, un gatto, e il blocco creativo. Da copione. Ché poi si fa per dire,“blocco”. In realtà sono preda costante di frasi ad effetto. Sul serio. Cioè, mi vengono in mente 'sti pensieri sconnessi a cui non sono in grado di trovare un senso logico. Non valgono neanche come tweet. Non arrivano all'Haiku. Non servono. Fossi un compositore indie potrei farci sù un testo criptico da elogi della critica. Fossi un poeta, mascherarli da svolta ermetica. Ma sono essenzialmente una povera pirla. Ergo, continuo ad appuntarli senza sapere perchè.



E ora penserete che stia esagerando. “Dai, non possono essere così insensati”. E allora spiegatemelo voi cosa accidenti dovrebbe dire: “ forse è omicidio efferato di un cielo rubato di rose e perchè”. Ecco, appunto. Manco Battiato nei suoi momenti migliori. Il guaio è che non sono neanche ubriaca. Non fumo, non mi sono presa una cotta... insomma, zero giustificazioni. Così preferisco parlare di “blocco creativo”. Anche se ho una voglia matta di scrivere. Anche se me ne sto qui, ad aspettare la neve, e pur di aggiornare il blog mi lancio in un delirio dei miei. Ché, a dire il vero, è dei Grammy che vi avrei voluto parlare. I Grammy, già. Per una volta – forse la prima in molti anni – sono abbastanza soddisfatta dei vincitori (l'elenco completo, diviso per categorie, lo trovate qui ).




In particolare, plaudo al trionfo dei miei adorati Fun. All'incoronamento di Juanes (mi è sempre stato simpatico) in una tra le più importanti categorie latine. Agli svariati premi attributi alla bella "Somebody that I used to Know”. A (bavetta) Jhonny Depp. E, soprattutto, al vestito di Rhianna. Ecco: quel vestito lì lo voglio anch'io.



venerdì 8 febbraio 2013

Bologna, provincia di Cádiz.


Si chiama Bolonia. Solo che, invece delle torri, ci sono kilometri di spiagge bianchissime. Invece della statua del Nettuno, rovine romane sulla riva di un mare turchino. Parlo di un paesino da sogno di cui ho appena scoperto l'esistenza. Per capirci, uno di quelli con le case bianche accatastate sotto a un sole implacabile. Di quelli, in sostanza, che piacciono a me. Porta lo stesso nome della cittá emiliana, solo che si trova in provincia di Cádiz, nell'ambito del comune di Tarifa. Piú italo-spagnolo di cosí...


Foto: miradas-pipe.blogspot.com.es


Foto: Apaxe, todopueblos.com

Foto: Alejandra Flores, Pinterest


PS: se conoscete qualche altra localitá iberica con lo stesso nome di una cittá italiana, siete cordialmente pregati di farmelo sapere. 

martedì 5 febbraio 2013

Cose che fanno venir voglia di spendere soldi.

Salvo poche cose, di S. Valentino. Nello specifico, due. Sempre le stesse, da tempi immemori. Sono le confezioni dei Baci Perugina e l'invasione di cuori nelle vetrine. Sul serio. Per quanto riguarda il primo punto, poi, devo dire che quest'anno si son particolarmente impegnati. Quelle raffinate scatoline bianche con la rosa rossa sopra sembrano davvero fatte apposta per me. Che una si chiede anche dove vadano a nascondersi gli ammiratori segreti. Per dire. Insomma, possibile che spariscano sempre nei momenti di necessità? Così non si può andare avanti, dannazione. Deve pur esserci, un'associazione italiana di ammiratori segreti. Un sindacato, magari. Non so, un posto qualsiasi in cui si possa sporgere reclamo. Perchè, sia chiaro: la mia condizione di Bridget Jones perenne non mi turba. Però voglio i cioccolatini. QUEI cioccolatini. Li voglio disperatamente. Posso mica continuare a regalarmene da sola, no? Eccheccavolo, un po' di compassione!



Quanto al secondo punto, che vi devo dire? Cuoricini rulez. Cioé, a me il cuore piace proprio a livello estetico. Mi piace come forma. Come marchio sugli oggetti. Che ne so. Mi piace scarabocchiarne uno nell'angolo in basso a sinistra di ogni dannato foglio che mi capiti davanti, pure. Magari ho un animo particolarmente romantico. Il punto è che se vedo un cuore non ci capisco più niente. Vado in un brodo di giuggiole. Sento il portafogli che lotta disperatamente per aprirsi. Davvero, è una sorta di fenomeno paranormale. Per dirvi: l'altro giorno, all'Outlet di Palmanova, sono stata sul punto di comprare un orsetto di peluche con il maglione, un set di tazzine, e una serie di ornamenti inutili con su scritte delle frasi banali. In quest'ordine. E Tutto perchè sopra c'era almeno un cuore. Alla fine, sconfortata dall'incomprensione altrui, ho ripiegato su una borsa con le frange. Come se avessi avuto bisogno di una borsa, poi. Ma, insomma, c'era il settanta per cento di sconto. E si abbinava così bene ai miei stivaletti beige...dico, potevo forse lasciarla lì? Eh? Eh? Potevo?

Però, no. Sul serio, devo darmi una calmata. Non è possibile che a ogni dannato mese di Febbraio mi venga voglia di comprare di tutto. In effetti, se ci si pensa, è un altro lato positivo dell'essere single. Se avessi il moroso, legittimerei con la sua sola esistenza le mie velleità consumistiche. Finirei per inondarlo di cuori gommosi, pupazzetti, e altre varie forme di ode al kitsh. Come ovvia conseguenza, lui mi mollerebbe. O si troverebbe un'altra. E io finirei col piangere sotto alle lenzuola con su scritto “amore ti amo” senza più uno straccio di risparmio con cui viaggiare in Spagna. Che fine drammatica.

In tutto questo, Pinterest non aiuta. Ho iniziato ad addentrarmici sulla spinta di un aggiornamento letto sul lavoro. Per farla breve: sembra sia il social network con la stima di crescita più alta in un prossimo futuro. Chè comunicheremo sempre più per immagini, e bla bla. Insomma: c'era da capire di che si stava parlando. E, soprattutto, auto-compiacersi del proprio essere all'avanguardia (?). Solo che sottovalutavo gli effetti collaterali. Voglio dire, nessuno me l'aveva spiegato, che 'sto Pinterest è essenzialmente una profusione di oggetti di design e vestiti bellissimi. Che viaggiare tra le bacheche della gente è come guardare delle vetrine infinite. E' la fine, capite? La fine, davvero.

Sono riuscita anche a trovarci un set da tea a forma di cuore.

                                                                            Source: yedihouseware.com via S F I Z Z Y on Pinterest



Ergo, mi rassegno. Sospiro. Indosso il paraocchi e mi ripeto il mantra. “Viaggi/viaggi/viaggi”: rimane sempre quella, la priorità. Ma il lato positivo, ad ogni modo, è che ora anche il mio blog ha un pannello virtuale su cui attaccare cose. Proprio come il quadro in sughero che mi sorveglia colorato da camera mia. Non è forse una figata, tutto ciò?



                                                                               Source: Uploaded by user via Ilaria on Pinterest

domenica 3 febbraio 2013

Musica e Social Network: Condividere o desiderare?


La prolungata assenza di Dani Martín dai social network mi ha fatta precipitare in un vortice di riflessioni. L'argomento é il marketing. Sí, insomma, le strategie di comunicazione nel mondo della musica. Ve lo dico subito, cosí potete anche cambiare blog. Io, peró, le dovevo esternare. Insomma, ogni tanto devo pur fare la seria anch'io.  No?

Il punto é che c'é un'intera corrente di pensiero, pare. Tutta una sfilza di persone pronte a difendere la scelta come giusta ed opportuna. E badate: non parlo piú di questo caso in concreto. Macchè! Mi sono giá spostata su di un quadro generale. Ritengono, queste persone, che interrompere il contatto con i fan aumenti il desiderio del prossimo disco. In fondo é una teoria trita e ritrita giá in campo sentimentale: la lontananza dal partner genera nostalgia. La nostalgia, voglia di rivederlo. La voglia di rivederlo, re-incontri da scintille e cuoricini. Ecco, immagino che qui sia un po' la stessa cosa. Non posso neanche dargli torto, a dire il vero. Torno al caso concreto, e con me questo metodo funziona da impazzire. In senso letterale, impazzire.



L'idea, peró, contrasta nettamente con quella sorta di formula per il successo che, assieme a Michael Masnik, difendevo a spada tratta sin dalle pagine della mia Tesi. Connect with fans (CWF) + Reason to buy (R2B) = vendite. Recitava, piú o meno. Dove la reason to buy (ragione per comprare) consisteva nel valore aggiunto di cui rivestire il prodotto finale. Un'edizione limitata, un formato particolare, una copertina particolarmente curata...chessó, dei contenuti speciali che si trovano soltanto nella versione fisica dell'album. Qualsiasi cosa poteva andar bene. Ma il valore aggiunto era soprattutto quello dell'esperienza. E costruire esperienza attorno a un disco significava rendere i fan partecipi della sua creazione. Fare in modo che se ne sentissero parte integrante. Cosa che i social network, come mai era accaduto prima, rendevano piú facile che mai. Connect with fans significava interagire con loro. Raccontargli cosa stesse accadendo in studio di registrazione. Non dico ogni minuto. Non dico ogni dettaglio. Peró in modo piuttosto regolare. Condividere informazioni, aneddoti, magari qualche foto o qualche video...beh, farebbe sí che il fan si senta partecipe di tutta l'operazione. Tanto da sentirsi quasi obbligato a comprare il prodotto finale. Motivato dal fatto di percepirlo un po' anche suo. Difendevo la teoria di Masnik perché, in migliaia di altri casi concreti, anch'essa con me aveva sempre funzionato bene.



E allora mi chiedo, peró: quale funziona meglio? Sí, insomma, qual é l'approccio piú efficace? Condividere tutto o creare nostalgia? Coinvolgere, costruire esperienza, o piuttosto rinvigorire il desiderio? Voi che ne pensate?