sabato 29 marzo 2014

...Però sono professionale (omaggio a Bridget Jones)

Io lo so, che dovrei mostrarmi seria e professionale. Sul lavoro lo sono anche. Voglio dire, ormai mi esprimo fluentemente in un linguaggio fatto di recap, engagement, conference call e addirittura ASAP (ommioddio, sono diventata una di quelle che dice “ASAP”! Da qui a mimare le virgolette con le dita è un passo). Dico anche spesso feedback, nonostante il termine mi evochi puntualmente un'impegnativa conversazione con un Giovane Cantautore Toscano in merito alla necessità di esternare i propri individuali microcosmi creativi interiori. Il giorno dopo, qualcuno aveva scritto sulla sua pagina Facebook: “non ho capito di cosa parlavi con la ragazza col vestito verde”. Avrei volentieri scritto “Neanch'io”; così, per fare la simpatica, se non ci fosse stata una remota possibilità che qualcun altro oltre a me indossasse un vestito verde. Ma poi, chi è questa che ci ascoltava? Perchè dovrebbero interessarle i microcosmi creativi? Chi sono io? Da dove vengo? Eccetera. 

Comunque. Si diceva che sono professionale. Anche se l'aggettivo professionale, nell'immaginario collettivo, corrisponde più a una col tailleur di Armani ben stirato che a qualcuno che passa metà della pausa pranzo a cercare i prezzi dell'Indovina Chi? da viaggio (lunga storia). Se è per quello, ho  anche un sole stilizzato da bambina di cinque anni sulla tazza-lavagna della mia scrivania. E, ultimamente, l'aggravante di esprimermi per citazioni tratte dall'ultimo libro di Bridget Jones.






Il punto è che, attorno alla mia indubitabile ed elevatissima professionalità, le situazioni paradossali continuano a prendermi di mira. Anche nell'orbita gravitazionale della vita lavorativa. Qundi, mi son detta: perchè non dovrei raccontarvele? Del resto, voi probabilmente vi starete chiedendo la stessa cosa, con il piccolo dettaglio di togliere il non dalla frase. Però che ne so, magari - se seguite il blog da tempo- eravate sinceramente preoccupati dalla sparizione della ragazza che cercava metodi alternativi per estirpare cavallette dal bagno del suo appartamento di Parma. Capirete che io senta l'obbligo morale di rincuorarvi. Apro una parentesi per dire che anche Bridget Jones è spesso alle prese con invasioni di insetti malefici. Chiudo la parentesi. Punto. 

Il resoconto delle mie peripezie mi serve peraltro a combattere la deformazione da blogger seria che oramai mi induce a scrivere tutto: 

1. Per elenchi numerati 
2. Per blocchi di paragrafi tematici con titolo in grassetto.

PARAGRAFO TEMATICO CON TITOLO IN GRASSETTO 
Visto? Ce la posso fare. 

Ma si diceva delle situazioni paradossali. Della serie che la mia giornata tipo inizia inevitabilmente all'insegna dello spossamento fisico e morale. E a questo punto potreste pensare che io abbia un'eccitante vita notturna fatta di amanti focosi, feste in discoteche alla moda e cocktail a base di frutta tropicale. Invece è solo che mi ostino nel mio amore per le passeggiate: ottimo modo per svegliarsi del tutto, ossigenare i pensieri, mantenersi in forma e raggiungere l'ufficio con la mente bella piena di idee. Tutto ciò in teoria. In pratica, le suddette idee hanno tendenzialmente a che fare con tutt'altri ambiti, decisamente impegnati e culturali, quali il nuovo disegno da fare sulla tazza-lavagna o se è vero che faranno un film di Jem and The Holograms.



Tutto ciò mentre corro come una pazza, manco mi inseguisse uno psicopatico armato di mitra. Risultato: il mio ingresso trionfale nell'edificio adito allo sviluppo della mia disarmante professionalità mi vede ansimante, spettinata e in evidente sindrome da non-avrò-mica-l'ascella-pezzata per i primi dieci minuti almeno. Ovvero, il tempo che impiego a scolare un'intera bottiglietta di acqua frizzante come se fossi appena uscita da un'escursione nel deserto del Sahara. Il tutto si aggiunge, in genere, alla sottile vena d'inquietudine per cui spero di evitare incontri casuali con lo psicologo della porta accanto. Non che abbia niente contro di lui, anzi. E' solo che, dopo i nostri primi – e al momento unici- due incontri sono seriamente convinta che mi stia organizzando una seduta d'urgenza alle spalle. La prima volta l'ho incrociato alle dieci del mattino, esprimendomi in un cordialissimo e squillantissimo “Buonasera!” che, dopo lunga pausa ad effetto, ho giustificato con un “cioè, buongiorno, devo avere il fuso orario incorporato”. La seconda, stavo raggiungendo il bagno con passo furtivo munita di (attenzione! Segue elenco numerato!): 

1. Bacinella 
2. Ingiustificata quantità di piatti da lavare
3. Detersivo per piatti 
4. Cartellino con su scritto “occupato”. 

Mi aveva guardata seriamente perplesso. 

Comunque. Se questo rientra nella routine, l'ultima settimana è stata ancor più impegnativa. Soprattutto a causa dell'insistente squillo del telefono ad opera di capi, clienti, comitati olimpici (lunga storia), giornalisti, organizzatori di manifestazioni inerenti la Grecia antica, call center vodafone, mia madre che mi chiede come si compra la roba sul sito di Zara. E mai nessuno che mi venda un Indovina Chi?.  Lo squillo del telefono, di per sé, mi ha regalato un insostenibile problema di allucinazioni uditive per cui mi sembra di sentire Gretel di Dani Martín (meglio nota alle mie colleghe come La Musichetta) praticamente ogni due secondi, nonché a guardarmi attorno con occhi spiritati chiedendo “é il mio? É il mio?”. Come se qualcun altro, in Italia, potesse avere La Musichet..ehm, Gretel, come suoneria del cellulare.
Dovrei cambiarla. 



Il tutto, sommandosi ad un sottofondo costante di tonfi sordi che potrebbero provenire alternativamente da qualcuno che lavora sul tetto, da un terremoto del settimo grado Mercalli o da gente che si ammazza di legnate, ha peggiorato notevolmente il mio giá avanzato stadio di rincoglionimento. 

Tanto che l'altro giorno, nel tentativo di scaldare delle lasagne, il microonde mi ha risposto “No”. Giuro, l'ha proprio scritto sul display. Cosí, strafottente. NO. Al che ho instaurato un dialogo con lui, ricordandogli che,  capisco la ristrettezza degli spazi disponibili, ma almeno un “mi dispiace” non sarebbe guastato. Poi, non riuscendo a collegare il fatto che l'apparizione di una scritta qualsiasi dimostrava di per sé la presenza di corrente elettrica, mi sono messa a passeggiare per tutta la stanza con la Macchina Malefica in braccio, avendo il chiaro obiettivo di testare l'interezza delle prese elettriche disponibili. Stavo giá per chiedere asilo al kebabbaro all'angolo quando mi sono accorta che il piattino interno s'era spostato. 

La giornata s'era poi conclusa attendendo una cliente all'aria aperta ormai non piú “piacevolmente frizzante” della sera. Il mio esagerato anticipo, unito al giá citato sintomo di Primaverite Acuta che m'induce ad indossare giubbottini in pelle leggerissimi (lo dice anche Bridget Jones, che in questa stagione non si sa come vestirsi), mi ha spinta ai limiti dell'ibernazione. Per cercare di distrarmi, mi sono rifugiata nella videoteca a lato, leggendo trame di film che probabilmente non guarderó mai in vita mia. Ce n'era una in cui un tizio ereditava dalla famiglia la facoltá di viaggiare nel tempo;  quindi, visto che non rimorchiava alla Festa di Capodanno, ha pensato bene di andare a conquistare una damina dell'ottocento che...no, aspetta, forse non era proprio cosí. 

Ci stavo riflettendo quando una ragazza munita di carrozzina+bebé mi ha salutata affettuosamente. Ho impiegato la successiva mezz'ora a chiedermi chi fosse, a demoralizzarmi perché tutte le mie coetanee stanno figliando mentre la mia massima aspirazione é raggiungere la prima fila ai concerti, e a rivangare il periodo dell'Erasmus in cui la quantità media di persone conosciute al giorno rendeva particolarmente frequente questo genere di situazioni. Soprattutto nel mese in cui mi ero votata anima e corpo alla Venerazione del Martini. Che tra l'altro ha solo una I in più rispetto a un'altra delle mie passioni. Ricordo che eravamo sul Barco, c'era quella canzone di Pittbull e...


Poi la tipa mi ha chiesto scusa. “Ho sbagliato persona”, ha detto. E io avrei voluto abbracciarla. Giuro. Voglio dire, in genere cose del genere capitano a me. Capirete quanto l'abbia trovata istintivamente simpatica. 

“Che brutta figura, sono davvero mortificata!”, ha aggiunto mentre io, finalmente, iniziavo a sentirmi un po' più adeguata al resto dell'umanità. 

Che poi, in fondo, è la ragione per cui leggo Bridget Jones. 

martedì 25 marzo 2014

I migliori "primi tweet" italo-spagnoli!

Con la scusa dell'ottavo compleanno, Twitter ha lanciato un simpatico sito che permette di risalire in un click al primo tweet di chiunque. Manco a dirlo, la cosa ha dato vita a una mania da revival generalizzata, facendo del web un'accozzaglia indistinta di ragazzini che si raccontano le prime volte nel bagno del liceo. Teneri. Peccato che i primi cinguettii siano difficilmente originali o emozionanti. Per il 90 % degli utenti si riducono a un "come diavolo funziona 'sta roba"?, sostituito tutt'al più dalla variante del "ci sono anch'io" (probabilmente seguita da un secondo tweet che non vedremo mai con sopra scritto: "come diavolo funziona 'sta roba"?).


Tuttavia, siccome le vene nostalgiche non mi lasciano mai indifferente, ho pensato di andarmi a cercare i primi tweet dei personaggi italo-spagnoli che seguo. Salvo scoprire, a ricerca ormai conclusa, che la versione iberica dell'Huffington post aveva già avuto pressapoco la mia stessa idea (sto ancora cercando di decidere se ciò la qualifichi come buona o scontata). Comunque. Se loro si focalizzavano sui vip spagnoli ed internazionali, io ho ampliato la ricerca a quelli italiani,  aggiungendoci anche qualche vera e propria istituzione cibernetica itañola. Ne ho scoperte delle belle.
Certo, c'è stato chi si è limitato al classico "questo è il nostro account Twitter, seguiteci", come La Oreja De Van Gogh, gli Estopa o Alejandro Sanz. Lo stesso Dani Martín si é espresso con uno stringato "Benvenuti" che - lo devo ammettere - un po' m'ha delusa. El Pescao, dal canto suo, s'é lanciato nell'avventura con il consueto entusiasmo che lo contraddistingue: "YA ESTAMOSSS!!!", scriveva, in un plurale maiuscolo tutto infarcito di punti esclamativi.

Poi ci sono quelli piú tecnici. Tipo l'allora community manager de El Canto del Loco che twittava un "probando, probando", Melendi che aggiungeva al testing il tono scettico/alienato dell'espressione "'sta cosa dei social network" o i Negramaro e il loro "work in progress". 

C'é Jarabe de Palo, che ha puntato tutto sulla chiarezza con il primo tweet piú completo del mondo ("Ciao ragazzi/e, sono Pau, questo é il mio account twitter ufficiale (in fase di costruzione), a breve partiremo. Baci!") . E c'é chi, come Jovanotti o Nek, ha deciso per l'esordio in medias res promuovendo direttamente un video o un singolo prossimamente in radio.

Eppure, c'é anche chi é stato piú originale. Divertente. Umano. A seguire, ecco i miei "primi tweet" preferiti:

Cesare Cremonini (Ode all'alcolismo)



Il Cile (Un simpatico umorista)



Valentino Rossi (Sempre se non piove!)


Santiago Segura (eh?!?)


Pau dei Negrita (Il filosofo)

Poi ci sono quelli che non hanno capito come si usa il mezzo. Ad esempio Fernando Tejero, che evidentemente non conosceva ancora l'uso delle menzioni (con chi accidenti parla?!)



... O i Belgrado, che devono aver confuso il primo tweet con la bio.

Quanto agli account di blog e portali italo-spagnoli oggi consolidati, é curioso osservare quali sono state le prime notizie che hanno condiviso in 140 caratteri.

Itañolandia, ad esempio, ha esordito nel segno della maternitá: 


Il primo tweet di Rotta a Sud Ovest, invece, riguardava Cuba:



SpagnainItalia, vincitore di ben due "Italo-Spagnola Awards" come miglior account twitter italo-spagnolo, promuoveva un evento a cui mi sarebbe piaciuto assistere. 


La prima notizia del Quotidiano piú famoso di Spagna aveva per protagonista la Catalogna.

Il fanclub italiano  de El Canto del Loco (e di tutti i suoi componenti) iniziava all'insegna della gratitudine.

Quanto a me, il mio primo tweet é stato piuttosto imbarazzante. 


E il vostro? Me lo ricopiate nei commenti, che sono curiosa?



domenica 23 marzo 2014

Guida in 16 punti per sopravvivere a un concerto pop

Mi è accaduto spesso, nel limbo delle attese. Qualche volta ero seduta per terra, con le spalle appoggiate a una transenna; Altre un po' più comoda e composta sui gradoni in pietra di un qualche anfiteatro. Mi capitava, in quelle occasioni, di accennare alle mie velleità scrittorie. La vicina di posto sorrideva interessata. Poi, immancabilmente, qualche personaggio bizzarro faceva capolino nel nostro campo visivo. Una stangona barcollante sui tacchi a spillo, ad esempio. O magari una ragazzina con l'inchiostro già colato dal nome che si era scritta in fronte. Ci guardavamo, scuotendo la testa. Ed è a quel punto che la proposta arrivava. 

“Dovresti scrivere un manuale di sopravvivenza e/o bon ton per concerti pop”- scherzavano - “L'umanità ne ha bisogno, a quanto pare”. 
Io ci riflettevo per la mezz'ora successiva, seriamente convinta che fosse una bella idea. Mi scrivevo il primo capitolo in testa, verità assolute mascherate da ironia. Poi, però, le luci si abbassavano. E – come sempre - l'universo intero scompariva. 

Ora: un manuale sarebbe pretenzioso, non ci piove. Però, in qualche modo, oggi a quelle voci ho voluto dare ascolto. In fondo, se c'è qualcosa in cui posso dirmi esperta, sono le frequentazioni di concerti. Ed è basandomi su più di 14 anni di esperienza che ho messo assieme un decalogo allargato che vi aiuterà ad uscire illesi e felici da un live ad alta frequentazione. Se volete aggiungere dei punti, i commenti sono, al solito, a vostra completa disposizione.




GUIDA IN 16 PUNTI PER SOPRAVVIVERE A UN CONCERTO POP 

  1. Sii gentile con la security: è il tuo lasciapassare per il concerto, la tua riserva d'acqua se raggiungi le prime file e  la tua ancora di salvezza in caso di necessità. Tienilo a mente, e comportati di conseguenza. Quelli che ti urlano di “stare indietro” o di gettare il tappo della bottiglia sono spesso ragazzi sottopagati per stare tutto il giorno a contatto con miriadi di teenager isteriche. Un atteggiamento maturo e rilassato non potrà che giocare a tuo favore. Perciò sorridi, asseconda le loro richieste, fa vedere che sei dalla loro parte. E, quando apriranno i cancelli, entra camminando finchè i loro occhi sono puntati su di te: avrai molte più chance di arrivare davanti rispetto a chi si lancia da subito in uno sprint da centometrista. Con tutta probabilità, quest'ultimo sarà stato bloccato mentre tu sarai già a metà parterre, pronta per la corsa finale.

  2. Rispetta l'ordine di arrivo. Puoi anche trovare assurdo accamparsi per intere nottate davanti a un palasport, ma purtroppo è così che funziona. Sta a te decidere se fare dei sacrifici pur di raggiungere la prima fila oppure no. Ma, se arrivi a pochi minuti dall'inizio dello show, non aspettarti di scavalcare gli altri. La botte piena e la moglie ubriaca, lo sanno tutti, non si possono avere.

  3. Non insultare le band di spalla. Suonare per un pubblico che non vede l'ora che tu te ne vada è la più dura delle gavette: non rendergliela ancora più difficile! Piuttosto, ascoltali. Chissà che tu non scopra qualche bella canzone...!

  4. Socializza con i vicini. Mischierete il vostro sudore al loro per le prossime due ore almeno. Tanto vale provare ad andarci d'accordo. Chiacchierate, condividete le attese, conoscetevi meglio. Siete lì per la stessa ragione: qualcosa in comune ce l'avete già. 

  5.                   

  6. Tieni il posto per 3 persone, non per 30! Capita a tutti di avere un amico che lavora, o ha avuto un incidente, o viaggia su un mezzo pubblico con orari poco concilianti: non c'è niente di male a tenergli il posto in fila, anzi! La prossima volta, magari, lo farà lui con te. Solo, cerca di non esagerare. Far passare una o due persone poco prima dell'apertura dei cancelli è un conto (ulteriore consiglio: avvisa da subito i tuoi vicini di fila che lo farai!)  farne passare a decine un altro. A te piacerebbe essere superata da un'intera comitiva a pochi minuti dall'inizio dopo che per tutta la giornata sei stata seduta sull'asfalto? No, vero? Ecco. Allora non farlo neanche tu.

  7. Non farti fregare! Va bene socializzare, va bene essere gentili, ma i concerti pop restano in gran parte una competizione. Se hai la fortuna di arrivare in prima fila, appoggia entrambi i gomiti sulla transenna e non staccarli mai più da lì. Una delle tattiche più in voga tra i concertisti sgamati delle seconde file è appoggiare con nonchalanche una mano sulla transenna e fare perno su di essa per spintonarti da un lato e fregarti il posto nel momento di caos in cui le luci si abbassano e tutti si alzano in piedi. Socievole va bene, fesso no.
     
  8. MANGIA!!! Non importa che tu sia nervosa, emozionata o abbia lo stomaco chiuso: un calo di zuccheri può rovinarti in modo irrimediabile lo show che tanta fatica e tante aspettative ti è costato. Ne ho viste tante di ragazzine che non hanno toccato cibo prima di entrare nel palazzetto. Le ho viste anche tutte svenire.

  9. In estate, mai senza cappello! Fare la fila per un concerto in piena estate implica, nella maggior parte dei casi, dover trascorrere l'intera giornata sotto al sole, senza uno straccio di riparo. Come per il calo di zuccheri, anche un'insolazione può impedirti di assistere allo show che tanto attendi. Quindi, lascia a casa la vanità e pensa in modo prioritario alla tua protezione. Imprescindibili crema solare, molta acqua e un copricapo, sia esso un berretto col frontino o una maglia legata in testa tipo tuareg. Se hai un ombrello da utilizzare per creare un po' d'ombra, meglio ancora.

  10.                        

  11. Evita gli alcolici prima dello show o, per lo meno, non abusarne. Una birra non ha mai fatto male a nessuno, esagerare con le gradazioni sì. Cocktail e simili non vanno d'accordo con il caldo e le folle oceaniche, e tu non vuoi sentirti male, giusto? Senza contare che un concerto atteso a lungo vale la pena di essere assaporato in tutti i dettagli, a mente sobria. Poi, una volta usciti, ben vengano i festeggiamenti (a meno che tu non debba guidare)!

  12. Considera i laterali. Il sogno di ogni fan, si sa, è la Prima Fila- Centro. Se non ti riesce di raggiungerla, a volte è meglio un posto in prima fila ai lati che una seconda o terza fila centrale. Circola più aria, c'è più spazio per appoggiare bandiere e cappotti, ed è  – inspiegabilmente – una location molto meno contesa. Ricorda anche che il posto che raggiungi è sempre un po' più obliquo rispetto a quello che effettivamente avrai a concerto iniziato: una volta alzata, il movimento della folla ti sposterà inevitabilmente un po' più verso il microfono.

  13. Usa i cartelloni con moderazione. Non hai raggiunto la prima fila, ma il cartellone te lo sei portato dietro per qualcosa. Vuoi esibirlo, è chiaro. Vuoi che venga letto. Non c'è niente di male, se non fosse che dietro di te ci sono altri spettatori paganti. Il segreto per raggiungere il tuo obiettivo senza farti linciare? Oscuragli la visuale soltanto per pochi minuti, esibendo il cartellone in una o due occasioni puntuali anziché tenerlo alzato per l'intera durata del live.

  14. Lascia a casa la Reflex. Le velleità da fotografo sono comprensibili, ma ai concerti pop le macchine fotografiche “professionali” vengono requisite 9 volte su 10. Mica vorrai correre questo rischio, vero? Meglio accontentarsi dello smartphone e di una digitale compatta, che rovinarsi la serata per un tentativo!

  15. Vestiti in modo adeguato! L'abbigliamento da live meriterebbe un decalogo a sè (e non e detto che un giorno non lo faccia). Qui basti tenere a mente due concetti chiave: comodità e strati. Con le scarpe che indosserete dovrete correre, saltare, fare la pipì in bagni chimici e maleodoranti se non addirittura dietro ad un cespuglio. Senza contare che probabilmente vi pesteranno i piedi. Quindi sì alle scarpe basse, no a tacchi a spillo, sandali e infradito. Quanto al resto dell'outfit, ricordate che, in qualunque stagione ci si trovi, la temperatura raggiunta durante il concerto sarà di molto più alta che quella del prima e del dopo. Con il classico abbigliamento "a cipolla" andrete sul sicuro. 

  16. Non rischiare la vita per un trofeo! Dimentica, per un momento, che ti trovi ad un concerto. In qualunque altra circostanza, faresti a botte per un asciugamano sudato? Ti beccheresti un pugno nei denti per un pezzo di plastica triangolare? Se la risposta è no, perchè dovresti farlo ora? Se il cantante che segui lancia qualche oggetto dal palco e a prenderlo è la persona che ti sta accanto, lasciaglielo. Creare una rissa ti farà perdere almeno metà della canzone seguente, oltre a causarti lividi e insulti da parte di tutti coloro che ti circondano.

  17. Evita perdite di tempo inutili. Prima di entrare ad un concerto le borse vengono perquisite (o, quanto meno, tastate): lo sanno tutti, e lo sai anche tu. Quindi, apri la cerniera prima di raggiungere l'addetto alla security, così da agevolare il suo controllo e velocizzare l'entrata. Sconsigliati, per la stessa ragione, zainetti e borse extra-large.

  18.                           

  19. Goditi il momento! A tutti noi piace immortalare ogni istante del concerto, ma le foto che riguardiamo di più sono quelle che abbiamo scattato con gli amici prima di entrare. Quindi va bene scattare, va bene girare qualche video, ma l'attimo che vivi non si ripeterà: non sprecarlo tutto dietro ad uno schermo. Canta, balla, urla e sorridi: in fondo è per questo che sei qui.


martedì 18 marzo 2014

I look ispirati ai dischi: Ana Vera e la primavera

Primaverite: patologia incurabile che affligge giovani fanciulle inclini a meteoropatia. Tra i sintomi più conosciuti si annoverano:
- Diffuso incremento dell'appeal maschile (chi siete voi? Dov'eravate prima? Buongiorno, io sono single, per la cronaca);
- Starnuti al posto delle virgole in una conversazione di media durata;
- Stati di insonnia alternati a collassi facilmente confondibili con coma irreversibile (si prega di re-impostare la sveglia prima di contattare le Pompe Funebri);
- Necessità impellente di spogliarsi, seppur a costo di testare in prima persona le condizioni climatiche di una busta di surgelati. 
Ché chi se ne frega, in fondo: i vestiti leggeri che hai nell'armadio sono cosìììììì cariniiii! Colorati! Attillati! Pieni di fiori! E poi c'è quel chiodo nero con le borchie che non hai ancora mai messo, e il sole splende, e – diamine! - un po' di cagotto che sarà mai? Giusto? Giusto! Dicono anche che la crioterapia faccia bene. 

Per festeggiare il ciclico ritorno di tutto ciò, l'outfit di oggi si ispira alla copertina del disco spagnolo che meglio si addice alla stagione. Guarda caso, include anche "Buenos días, sol", e cioé il brano che mi canticchiavo in testa stamattina in un preoccupante e del tutto immotivato attacco di entusiasmo. 

Insomma, il protagonista della mia rediviva rubrica fashion (su Pinterest stanno apprezzando, mi sono ringalluzzita!) é l'omonimo debutto discografico di Ana Vera. Che poi, con Primavera, fa anche rima. Ah. Ah.



Per il resto da dire non c'é molto, se non che amo alla follia l'abito in pizzo indossato dalla cantante. E' attorno a lui che ruota tutto il look. A lui e al prato fiorito, a sua volta richiamato dagli orecchini a forma di margherita, rivisitato nelle suggestioni allegre dello smalto verde e - soprattutto - ricalcato sulla borsa abbinata. Stivali e giubbotto, per quanto non appaiano sulla cover, sono una mia necessaria aggiunta personale: le buste di surgelati, pensandoci bene, non é che facciano poi tutta 'sta bella vita.


Music Inspired! - Ana Vera


domenica 16 marzo 2014

Segnalazioni italo-spagnole: Radio Latita (e la mia esaltazione)

Ho sempre riscontrato un vago retrogusto vintage nella frase "Riceviamo e volentieri pubblichiamo". In questo caso, peró, sarebbe stato difficile trovare introduzione piú appropriata. 


Scrivo questo post con le cuffie alle orecchie e un grado di esaltazione difficilmente concepibile da persone sane di mente; Nonché quasi del tutto inconciliabile con le regole grammaticali. In riproduzione, una playlist monotematica su Dani Martín tra le piú complete e meglio assortite che io abbia mai sentito. In altre parole, il film sonoro della mia intera vita. Ommioddio, ma c'é anche il duo con Bosé! Lacrime. Sospiri. Brividi. Riflessioni filosofiche sparse sulle ripercussioni emotive della musica che amiamo. Domandoni esistenziali che manco Shopenauher. Ma che razza di superpotere hanno i compositori, me lo spiegate? Aiuto. La Verdad. I concerti. Quiero volver a vivir toda esa magia....troppo tempo che non ascolto Pequeño. Ho bisogno di un live, ADESSO!

Comunque. A trasmetterla é Radio Latita, web radio italo-spagnola che mi segnala Simone tramite il modulo di contatto di questo blog. E io, a questo punto, non posso fare altro che segnalarla a voi. 



Non per cortesia, e non in via esclusiva per gli speciali di un'ora e mezza su certi cantanti dagli occhi azzurri (anche se, devo dirlo, aiutano). No. Piuttosto, perché si sposa perfettamente con la filosofia di questo blog. Inclusa nel circuito di Radionomy.com, unisce la musica spagnola e la musica italiana in un'unica stazione radio, rivolgendosi al pubblico di entrambi i Paesi. Il tutto, senza interruzioni pubblicitarie o chiacchiere eccessive. Se seguite questo blog per un'affinitá di gusti e passioni itagnole, vi assicuro che l'amerete un bel po'. Giudicate voi: http://www.radiolatita.com/it/ 


mercoledì 12 marzo 2014

Cupcake italo-spagnoli: Crema Catalana vs. Tiramisù

Crema Catalana o Tiramisù? Oggi la sfida italo-spagnola a base di cupcake  la affido a due tra i dolci più caratteristici ed internazionali dei nostri Paesi. Le ricette provengono rispettivamente dal blog spagnolo Cupcakesadiario e dall'italianissimo gnamgnam.it. Allora, quale preferite?
















CUPCAKE DI CREMA CATALANA (ricetta originale: cupcakesadiario.blogspot.es)

Ingredienti per 6 cupcake: 

2 uova grandi
100 gr. zucchero
100 gr. farina
100 gr. burro a temperatura ambiente
¼ cucchiaino di vaniglia bourbon in pasta
¼ cucchiaino di cannella in polvere
¼ cucchiaino di buccia di limone grattuggiata
1 cucchiaino di lievito per dolci

Ingredienti per la crema catalana: 

500 ml di latte intero
4 tuorli d'uovo
80 gr. zucchero
20 gr. Maizena
½ busta di vaniglia
½ bastoncino di cannella 
Buccia di ½ limone 

Preparazione: 

Preriscaldate il forno a 180 gradi. Nel frattempo, in una ciotola lavorate la farina con la cannella e lo lievito. Lasciate riposare. In un altro contenitore mescolate il burro con lo zucchero finchè il composto non risulta completamente amalgamato. Aggiungete le uova una alla volta e montate il tutto con lo sbattitore elettrico a velocità media. Aggiungete la vaniglia e mescolate con cura. 
Aggiungete il composto con la farina poco per volta, a cucchiarate, e continuate a mescolare finchè la massa non risulti omogenea e priva di grumi. Infornate per 20 minuti finchè (al solito!) inserendo uno stuzzicadenti al centro del composto, questo non ne esca completamente asciutto. 

Lasciate raffreddare i cupcake. 

Nel frattempo, cominciate a preparare la crema catalana (trovate una ricetta della crema catalana anche tra i vecchi post di questo stesso blog). Scaldate il latte a fuoco basso con il bastoncino di cannella, la vaniglia e la buccia di limone. In un contenitore, intanto, sbattete con le fruste i tuorli d'uovo, lo zucchero e la maizena fino a farne un composto omogeneo. Quando il latte giunge a ebollizione, versateci dentro il composto e rimettete il tutto sul fuoco finchè la crema non raggiunga la densità desiderata. 

Versate quindi la crema sopra ai cupcake ormai freddi e lasciate raffreddare anch'essa. Lasciate riposare i dolcetti in frigorifero. Prima di consumarli, spolveratene la superficie con lo zucchero (meglio se a velo o di canna) e caramellatela con l'apposito strumento (che io desidero da tempi immemori e non mi sono ancora decisa a comprare, tra parentesi). 


I cupcake saranno già abbastanza spettacolari di per sé ma, se proprio volete arricchirli con ulteriori decorazioni, consiglio un fiore sui toni del giallo, come nella proposta originale del blog Cupcakes a Diario), una stecca di cannella o, se volete andare sul “patriottico”, una bandierina della catalogna.
CUPCAKE AL TIRAMISÚ (Ricetta originale: gnamgnam.it) 

Ingredienti per la base: 

250 gr. farina
120 gr. zucchero
60 gr. olio di semi
250 ml yogurt al caffè
16 gr. lievito per dolci
2 uova
1 tazzina di caffé ristretto. 

Ingredienti per il frosting: 

350 gr. mascarpone
150 ml. Panna
100 gr. zucchero
cacao amaro per spolverare 


In una ciotola setacciate farina e lievito. Al centro aggiungete lo zucchero, le uova, l’olio e lo yogurt. Mescolate velocemente ed incorporate il caffè. Versare composto in pirottini o stampini per muffin imburrati e infarinati. Cuocete in forno preriscaldato statico a 180° per circa 15-20 minuti (mi raccomando la prova stuzzicadenti!). 

Sfornate e lasciate raffreddare. 

Nel frattempo lavorate il mascarpone con lo zucchero. Aggiungete la panna montata. Fate riposare in frigo per mezzora e versate il composto in una sacca da pasticciere con il beccuccio a stella largo. Decorate i vostri cupcake con la crema al mascarpone, spolverateli con il cacao e saranno pronti per essere serviti! 


Per un tocco piú personale, potete sfruttare biscotti, chicchi di caffè o scaglie di cioccolato fondente piú spesse sulla cima del frosting.

domenica 9 marzo 2014

La parola indovinello.

Stavo pensando alla parola “indovinello”. Così, fuori da ogni contesto, mentre attorno il mondo s'incasina. E' buffo quel che ricordiamo della nostra infanzia. Asilo. Elementari. Io niente, niente proprio. Al massimo qualche sprazzo qua e là. Giusto giusto le giostre con i cavallini, le belle statuine in giardino con gli amici... e la parola indovinello, oh, quella sì. 

La maestra di matematica la scriveva sulla lavagna coi gessetti colorati, molto prima che ci insegnassero a leggere. Aveva un bel corsivo tondo, pulito. Ricordo che rimanevo a fissarla per tutta la lezione, quella scritta. Cercavo di capire quale segno si collegasse a ciascun suono. Di riprodurlo su fogli a quadretti. Di dissociare ogni lettera dall'insieme per creare altre parole, altre storie. Se indovinello inizia per i, pensavo, allora anche la i di Ilaria si scrive così. La seconda lettera del mio nome è la elle, indovinello ha due elle, e allora...
Mi sembrava una magia, poter collegare dei codici ad un concetto. E quanto era musicale quel sostantivo: “indovinello”! Suonava bene. Me lo rimbalzavo in testa, tornando a casa. Ne assaporavo ogni dettaglio nella modulazione del tono della voce. 

Indovinello. Indovinello.

Per me era la chiave del mondo. La stele di Rosetta. Un manuale. Sul serio, era la parola magica che mi avrebbe aperto le porte della vita. Perchè lo credevo davvero. Pensavo che una volta che fossi stata in grado di associare tutti i simboli ai loro rispettivi suoni, allora avrei decifrato l'universo intero. L'avrei avuto in pugno. Dominato. Mi sembrava, in certo modo, che l'alfabeto fosse il giocattolo più bello a cui potessi aspirare. A conti fatti era un po' come i mattoncini dei lego: a seconda di come li disponi, crei mondi diversi. Edifici. Costruzioni. Luna Park.



Quando, qualche settimana dopo, il maestro di italiano ci insegnò a capire e riprodurre le lettere, io un po' partivo avvantaggiata. Quelle di “indovinello”, ormai, le conoscevo. Sapevo identificarle. Sapevo scriverle in maiuscolo. In minuscolo. Ero in grado di scomporle e riassemblarle, e questo mi faceva – stranamente – sentire speciale. 

Negli anni ho avuto la curiosità di scoprire ed imparare un sacco di altre cose. Mai, però, è successo con tanto ardore, entusiasmo ed impazienza come da piccola volevo, disperatamente volevo, imparare a scrivere.



Quindi, a conti fatti, forse è vero che da bambini vediamo già quel che saremo. A conti fatti io l'ho sempre avuto chiaro, cosa soprattutto mi piacesse fare. Il pensiero mi coglie all'improvviso, tra il biglietto di un concerto e un vestito a pois che mi devo provare. Sa di illuminazione, ora che le preoccupazioni della vita sembrano avermi privata di una capacità. Ché ultimamente mi sembra di non riuscire più a trovare il comico nelle situazioni d'ogni giorno. Ché torno a casa da lavoro stanca, e non ho tempo di dar ordine alle idee. Ché da “#Odissea” ho iniziato almeno 10 libri, e non sono stata in grado di concluderne nessuno. 

E voi mi chiedete quando pubblicherò qualcos'altro. Mi interrogate, dite: “stai scrivendo?”, e forse ci restate male se vi rispondo di no. Io che soffro di dolori fisici quando un'idea non si traduce in carta. Quando il bisogno di aprire una cartella di word è così intenso da rendermi intrattabile. Ma non c'è tempo di assecondarlo, perchè c'è da occuparsi del blog aziendale; da far la spesa; da vedere un'amica; da vivere, in definitiva. Vivere. Perchè la vita ispira ma si prende tutto il tempo. Perchè vivere fa rima con scrivere e a me è sempre sembrata un po' la stessa cosa. Ma vi deludo, vi deludo senz'altro, nel mio lasciare sempre tutto quanto a metà. 

Però poi penso alla parola “indovinello”. Così, fuori da ogni contesto, mentre attorno il mondo si incasina. E forse sta proprio lì, la chiave. Forse basta tornare a quel punto. Scrivere per scrivere, e basta. Senza preoccuparsi delle aspettative. Dei contenuti. Dell'ironia, delle lamentele, dell'incompiuto, dei (scusatemi!) lettori. Scrivere perchè mi diverte, nient'altro. Perchè associare un segno a un suono è sempre stato il nostro – il mio!- superpotere. 

martedì 4 marzo 2014

#Insta-italospagnolismi, il ritorno

Che ogni mia velleità di farne un appuntamento periodico venga distrutta dagli scarsi aggiornamenti non significa che io smetta di essere curiosa. Ergo, ripristino gli "insta-italospagnolismi" spulciando tra le foto caricate dagli utenti su instagram nell'arco del mese appena trascorso. Queste che vi ripropongo sono solo le più rappresentative e recenti tra quelle postate alternativamente con l'hashtag #itañol, #italospagnolo, #ilovespagna o #spagna. Perchè social network che vai, italo-spagnolismo che trovi. Per sporadico che sia. 

In questo post:
I messaggi subliminari in itañol recapitati a @imauro21, 
il braccialetto motivacional di @Giaadi, i ricordi di Madrid di @ClementiRebecca,  il pranzo italo-spagnolo di @dedehh a Siviglia e quello di @Sarabattini in un'enoteca italiana che dovrebbe sponsorizzare di diritto questo blog. 

Buona visione! 


domenica 2 marzo 2014

Melendi e gli altri: l'inspiegabile mania delle versioni in italiano.

Ora: io non sono una guru del marketing, ma certe cose si dovrebbero capire con la logica. Per esempio, che se alcuni cantanti spagnoli hanno un discreto seguito in Italia, forse- e dico forse-  è proprio perchè cantano in spagnolo. Prendi gente come gli Estopa, Melendi o Alejandro Sanz. Sono tra i più seguiti, da noi, almeno se ci si limita al sottoinsieme di quelli per niente o poco considerati dai circuiti top 40 nazionali. Cos'hanno in comune? Le sonorità. Gli esordi marcati da echi pseudo-flamenchi, che tanto evocano (consciamente o meno) lo stereotipo tutto italico di ibericità. Il castigliano fa parte del pacchetto. E' una delle ragioni, se non la principale, della nostra ammirazione. Ebbene: come reagireste se vi dicessi che due dei tre nomi che ho citato hanno realizzato una versione in italiano di qualche loro brano? Inorridireste, giusto? Ecco. E non avete neanche ascoltato il risultato.

Che poi basta pensarci, accidenti.  I pochi spagnoli che hanno avuto successo da noi – Miguel Bosé a parte – chi sono? Vado a memoria. Enrique Iglesias, che si é fatto conoscere con bailamos. Lingua: spanglish. Las Ketchup, tormentone estivo con Aserejé. Lingua: spagnolo misto nonsense. Miguel Angel Muñoz, emerso dal successo di Paso Adelante con tú dirás que estoy loco. Lingua: spagnolo. Se torniamo indietro nel tempo ci sono i Gipsy King, che cantavano in spagnolo. E, piú avanti, David Bisbal, che ha fatto una meteorica comparsa al Festivalbar di Trieste (io c'ero!) cantando nella sua lingua madre. O ancora Bebe, fortunatissima con Malo. Lingua: spagnolo. Persino il caso piú eclatante, Jarabe De Palo, nonostante i numerosi duetti e pezzi in italiano, s'é fatto conoscere in terra italica con La Flaca. La stessa Depende, tra i suoi brani di maggior successo, é stata piú apprezzata in lingua castigliana che nella versione tradotta da Jovanotti. 

E' solo una piccola case history raccimolata a memoria. Niente di che, a confronto di quella facilmente rintracciabile da chiunque abbia accesso agli archivi di una major. Ma allora, perché ostinarsi a tradurre? Io capisco il contrario, intendiamoci. Lo spagnolo medio, di per sé, ascolta musica spagnola o musica cantata in inglese. Punto. Difficilmente, oggi come oggi, si comprerebbe un cd di musica italiana cantato in italiano. Li abbiamo abituati noi, da Ramazzotti in avanti (ma anche indietro, a dire il vero). Quindi capisco – e in certi casi approvo – che i nostri cantanti gli si continuino a proporre in versione castigliana. Il contrario, peró, mi sembra totalmente privo di senso. 

L'italiano, la musica spagnola, l'ascolta eccome. C'é tutta una fetta di ascoltatori latineggianti che stravedono per le sonoritá di quella lingua. Non sará una fetta maggioritaria, d'accordo. Ma nel momento in cui decidi di importare un cantante spagnolo nel nostro mercato, per pura logica é a quella fetta che devi puntare. Perché quella del pubblico che ascolta solo musica italiana, della tua canzoncina con l'accento marcato, l'impostazione forzata e la percezione di assoluta artificialitá, beh, mi spiace dirtelo ma se ne fregherá altamente. E chi ascolta musica straniera sará escluso a priori, cosa che non accadrebbe nel primo caso. 

Mi sfugge la difficoltá di questo processo deduttivo, sul serio. Com'é possibile che si arrivi a rendersi conto che a una discreta fetta di italiani piace un certo cantante spagnolo, si decida di rischiare a conquistare quel mercato, e per farlo – anziché portare le canzoni cosí come sono – se ne realizzi una versione in italiano? 

Versione in italiano che immancabilmente non viene cagata, del resto, perché l'errore di target piú banale e ripetuto del mondo porta a far sí che gli unici a comprarla siano i fan pre-esistenti, ma quasi tutti al grido di “preferivo l'originale”. Gli altri italiani non faranno altro che coglierne ogni privazione intrinseca di autenticitá, la pronuncia innaturale, la resa mediocre. Ribadisco, a costo di essere noiosa: chi ama la musica spagnola non la comprerá perché non é in spagnolo. Chi ama la musica straniera non la comprerá perché non é straniera. Risultato? Il pezzo non andrá nelle radio, i dischi rimarranno invenduti nel negozio, il cantante s'é perso ogni chance di tentare una carriera da noi. Con conseguente perdita di denaro da parte della discografica di riferimento, che nel frattempo avrá speso fior fior di quattrini in traduttori, produttori, studi di registrazione, re-incisione dei dischi e campagne promozionali varie.

Una cosa del genere era successa anche con La Oreja de Van Gogh e il loro triste invenduto a palate sugli scaffali della defunta Ricordi di Parma. E non credo che il mancato successo di “Guapa” da noi fosse dovuto soltanto al fatto che Amaia Montero lasció il gruppo più o meno al momento del lancio. 



Poi non si considera l'Italia come un mercato favorevole agli spagnoli. Poi si dice che gli artisti spagnoli non hanno successo mediatico da noi. Dico, pare brutto chiedersi perchè?

Ché l'ho scoperto per caso, il singolo in italiano di Melendi. Doveva uscire nel 2013 ma, ovviamente, se n'é persa ogni traccia. Io spero davvero che i signori della Warner, a questo punto, non si stiano arrovellando nel cercare di capire cosa sia andato storto. Perché, dai, a me Melendi generalmente non dispiace affatto. Ma 'sta cosa nella nostra lingua é un obrobrio come pochi se ne ricordano negli annali della discografia mondiale. Roba che definire “inascoltabile” è poco. Siamo seri.




Mancano addirittura le basi; il promemoria universale per cui la musica é innanzitutto suono. E il suono di “no se asuste señorita, nadie le ha hablado de boda” é fatto di vocali morbide. Tonde. Dolci. Niente a che vedere con le v e con le z del pur letterale “non si spaventi ragazza, non parlo di nozze ancora”. Duro. Forzato. Totalmente stridente nei confronti della melodia. Senza contare la solita forzatura, l'artifizio papabile di chi é costretto ad esprimersi in una lingua che né conosce né tanto meno gli appartiene. La scelta stessa del brano, pure quella é assurda! Ché presentare Melendi all'Italia come quello che scrive del “tuo giardino coi nanetti” fa sembrare ridicolo un autore che, nell'arco della sua carriera, ha scritto invece testi di tutto rispetto. 

E poi c'é Alejandro Sanz, che in italiano – mi segnalano – ha fatto a quanto pare un disco intero. Non é un mistero: a differenza di Melendi, a me Sanz non convince nemmeno in spagnolo. Ma almeno nell'originale ha una sua ragion d'essere. Almeno, non risulta finto e forzato. Almeno non é come “se tu mi guardi”, Santo Cielo! 




Per cui, se qualche addetto ai lavori incappasse per puro caso in questo mio post, spero accolga la mia accorata (e infervoratissima) preghiera: gli spagnoli, in spagnolo. Sempre. Fatelo per noi filo-ispanici. Per la mia pressione arteriosa. Per il benessere di chi è costretto a sorbirsi i miei papiri.

PS: A proposito degli Estopa, trovo questo riadattamento amatoriale in italiano di "Ya no me acuerdo" a cura di un certo Giuseppe Liberatore di gran lunga migliore di tutti quelli ufficiali. E E lo dico nonostante le sue imperfezioni. Il motivo? Oltre al mio personale amore per le voci un po' roche, canta nella sua lingua madre.