mercoledì 23 settembre 2015

New Americana (o le canzoni che scopri seguendo un'altra band)


Per quanto sembri strano, quello degli Imagine Dragons sarà per me il primo concerto davvero internazionale. Sì, insomma: la prima "data unica in Italia", il sold out con mille anni di anticipo e quelle robe lí. La cosa, suppongo, dovrebbe costituire un motivo abbastanza comprensibile con cui giustificare la mia trepidazione. Anche se di anni non ne ho più quindici, ma esattamente il doppio. Ahimè. 

Era ancora Febbraio, quando comprai i biglietti. Pochi giorni prima che fossero ospiti a Sanremo. All'epoca sapevo a malapena che faccia avessero. Erano la band che avevo scoperto sulla scia dell'entusiasmo di mio padre per It's Time, quando cercavo pezzi in inglese da ascoltare mentre lavoravo. Con quelli in spagnolo e in italiano mi distraggo a seguire il testo. A volte improvviso anche del Karaoke. Non esattamente quello che ci vuole per incrementare la produttività.

Ricordo come fosse ieri che dissi a Rebecca "però prendiamo i posti in gradinata, ok? Ché mi piacciono, ma non è che sia una fan sfegatata". Beata ingenuità. Chè Subito dopo iniziai a seguirli sui Social Network. E i Social Network, si sa, possono alimentare le passioni con la stessa rapidità con cui riescono a distruggerle. 





Morale: oggi al concerto mancano due mesi. Io seguo i quattro membri del gruppo, le mogli, il manager, la tour manager. So come si chiamano i figli. Conosco i brani degli EP editati prima del successo mondiale, le canzoni meno note, credo di aver guardato ed ascoltato almeno il 65% delle interviste presenti su youtube. Perciò non dico che baratterei il mio biglietto in gradinata con uno in parterre - mi ammalo dopo ogni viaggio, figuriamoci se ne avrei le forze!- ma di certo SONO una fan sfegatata. Una che, a forza di tweet e foto su Instagram, ha ormai quasi la sensazione di aver girato il mondo assieme a loro. A proposito: inaspettatamente carina, Taipei, dovreste farci un giro.

Qualcuno potrebbe dire che c'è un che di malato, in questa mia necessità di appassionarmi in modo viscerale a tutto ciò che mi provoca emozione. Di sicuro, però, ha anche dei lati positivi. Davvero. Almeno tre. Il primo è il (seppur lieve) miglioramento nel mio livello di inglese. Il secondo è che potrei arricchirmi scrivendo un tutorial su "come diventare fan in meno di 9 mesi" e venderlo ai reparti marketing delle case discografiche. Il terzo è che le mie playlist ne hanno guadagnato. Sì. Perchè se c'è una cosa che amo, nel seguire i musicisti sui social network, è che spesso condividono o consigliano pezzi di qualche loro collega. E, se ti piace la musica di qualcuno, è molto difficile che tu finisca col disdegnare quello che ascolta. Questione di affinità, nel più puro dei sensi. Così, grazie agli Imagine Dragons, ho scoperto in questi mesi gruppi e brani che mi hanno entusiasmata. Spesso è accaduto peraltro con largo anticipo rispetto al loro approdo sul mercato italiano, il che mi ha regalato la sempre impagabile soddisfazione di dire "lo conoscevo già" (con voce snob e aria di sufficienza) al primo avvistamento su MTV. Vi segnalo i migliori qui sotto. Ché in fondo, a pensarci bene, la musica anglofona è anche terreno neutrale e punto di contatto tra spagnoli e italiani. 

1. Walk the Moon - Shut Up And Dance

Brano del 2014, l'ho ascoltato per la prima volta come sottofondo a un video di vita famigliare condiviso da Dan Reynolds su Youtube. É una di quelle canzoni in grado di mettermi istantaneamente di buon umore. Un consiglio? Se ancora non la conoscete, ascoltatela su Spotify prima di guardare il clip: é talmente brutto che rischierebbe di rovinarvi l'impatto sonoro. 





2. Brandon Flowers - The Desired Effect 




Gli Imagine Dragons promuovevano attivamente su Twitter l'album di Brandon Flowers, forse anche per spirito campanilista: il cantante dei The Killers, infatti, é come loro di Las Vegas. Il suo "The Desired Effect" é stato per me una delle migliori scoperte dell'ultimo periodo, ed é attualmente (ironia del destino!) in loop costante mentre lavoro. Qui il video del bellissimo singolo "Can't deny my love"




3. Halsey - New Americana 






Halsey apriva il tour Nord Americano della band. Questa è, tra le sue, la mia canzone preferita.





4. X Ambassadors - Renegades 



Renegades è, secondo me, una delle migliori canzoni che passino in radio ultimamente. E, lo ammetto: non è stato proprio grazie agli Imagine Dragons che me ne sono innamorata. Il colpo di fulmine è arrivato nel più banale dei modi, al primo passaggio su RTL 102.5. Immaginate, perciò, la mia sorpresa quando, cercando il video su Youtube, mi sono ritrovata davanti ad un'intervista intitolata "gli X Ambassadors parlano della loro amicizia con gli Imagine Dragons". Me ne sono ricordata allora: un po' di tempo prima, i ragazzi avevano segnalato l'uscita dell'album su Twitter. Io ero in Spagna, o comunque fuori casa, e non avevo avuto modo di ascoltarlo. Peccato: sarebbe stata un'altra occasione per dire "li conoscevo già"! 



5. Cage The Elephant - Cigarettes Daydream 



Il cantante Dan ne parlava come una delle sue canzoni preferite in numerose interviste. Da lì, la mia curiosità. Che, ancora una volta, è sfociata in una piacevole sorpresa.





6. Sunset Sons - She Wants 





Unici non americani di questa lista, i Sunset Sons apriranno tutti i concerti degli Imagine Dragons in Europa, Italia compresa. Devo ammettere che, nel complesso, non mi entusiasmano granchè. Anzi, con tutta probabilità passerò l'intera durata della loro esibizione a sbuffare impaziente e scattare foto al pubblico, come da ingiusto clichè con le band di spalla. "She Wants", però, è carina un bel po'. 




domenica 20 settembre 2015

Tutto quello che pensate dell'Irlanda è sbagliato.


"Le avete viste le caprette in mezzo al verde?"

La risposta, naturalmente, è no. Non potrebbe essere altrimenti, quando il roboare costante dei voli Ryan Air ti fa lo stesso effetto di cinque camomille mescolate a Valeriana. Eppure sarebbe stata romantica, come immagine di apertura. L'introduzione perfetta a un docu-film immaginario che avrei potuto trasferire dai ricordi alla parola. Mi sembra quasi di sentirci la colonna sonora di Enya.

Il mio primo impatto con Dublino, invece, è il vento freddo che si insinua nella giacca. Un cielo gravido di pioggia sottile. La fila ordinata in attesa dei taxi allo sbocco di un corridoio con le pubblicità di Amazon. Sono qui - incredibile a dirsi! - per un viaggio di lavoro. Non mi sono documentata sui monumenti da visitare nelle poche ore libere. Non ho percorso con Google Street View la strada per l'appartamento preso su AirBnB. E adesso, stranita dall'assenza del guidatore davanti al mio posto sulla sinistra, sento il peso di tutti i preconcetti che - un kilometro alla volta- piano scivola via.

Dai finestrini, la Capitale d'Irlanda già mi rivela uno spirito anglosassone un po' più raffinato. I pub, uno più bello dell'altro, invitano a godersi birre e musica live. Le porte colorate, sulle case di mattoni, sembrano intonarsi ai tanti fiori che abbelliscono le vie.

Il taxista ha un accento strano. Dice but con la u. Parla dell'edificio del Parlamento, che avrebbe ispirato nientemeno che la Casa Bianca. Ci sconsiglia caldamente di ordinare da bere al Temple Bar. 



Devo concentrarmi un po' per capirlo bene. Non appena ci riesco, però, mi accorgo della sua immensa gentilezza. Ci sta spiegando come arrivare in centro. E, mentre parcheggia davanti all'ingresso di quella che definirei a tutti gli effetti una suite da scrittori, ho già capito che questo posto mi piacerà da morire. Nonostante non sia Spagna. Nonostante sia Nord. Nonostante (o proprio perchè!) tutto ciò che immaginavo dell'Irlanda si rivelerà sbagliato.

Ché, ad esempio, non è vero che fa buio presto. C'è luce quasi fino alle nove, complice di un via vai allegro e incessante tra le strade e i locali. E non è vero che si cena alle sei. I ristoranti tengono la cucina aperta fino alle 10, riempiendosi verso le otto/otto e trenta. Scordatevi persino lo stereotipo dei ragazzi pallidi, con le lentiggini e i capelli rossi: per lo più sono variamente molto belli, invece. Affascinanti, cortesi e con degli occhi azzurri in grado di mandarti fuori di testa.

A Dublino si mangia bene. Certo, non sarà la cucina mediterranea, ed è pur vero che tendono a proporti contorni di verdure un po' scondite. Ma c'è dell'ottimo salmone. Dell'ottima carne cotta nella Guinness. Ci sono le patate preparate in mille modi e le sempre confortanti "soup of the day" a scaldarti la gola in apertura dei pasti. Se sai dove andare, puoi trovare addirittura un buon caffè.

Per quel poco che ho potuto conoscerla, Dublino è una città giovane che crede nella sua musica e aiuta le sue startup (ci sono delle iniziative di finanziamento a quanto pare molto valide). Dimostra il suo carattere nella cura dei dettagli che ne caratterizza negozi e locali. Nell'efficienza di ogni suo servizio. Nel sorridente orgoglio dei suoi abitanti.

Ne ho adorato il quartiere più storico. Il paesaggio un po' malinconico dei Docks (rivelatisi la zona in assoluto più italo-spagnola della città!) al tramonto. Le architetture di Wellington Quay. La fabbrica della Guinness, trasformata in una sorta di museo interattivo di sette piani che culmina in una pinta gratis da sorseggiare con vista della città. L'aria, lì attorno, ha un odore appena un po' più dolce di quello del caffè tostato. E potrà sembrarvi anche strano, ma ogni tanto - con un po' di fortuna- sulle pareti in vetro filtra uno splendido e tiepido sole. 





Sono salita sul taxi per l'aeroporto. La radio, per qualche assurdo disegno del Destino, trasmetteva Besos de El Canto del Loco. 

C'è un angolo di Spagna anche nel cuore d'Irlanda; Ed è stato bello poterlo scoprire. 



venerdì 11 settembre 2015

El Pescao sul tetto che scotta (Live The Roof, Barcelona)

Mi è francamente difficile immaginare qualcosa di meglio di un concerto intimo al tramonto. Su di una terrazza panoramica. Al sesto piano di un hotel con vista su di una città spagnola. Figuriamoci se, poi, quella città si apre sul mare. Figuriamoci se a cantare è un artista che segui da ormai più di dieci anni. Uno con i piedi per terra, che ti abbraccia quando ti rivede.






Non c'é da stupirsi che io mi sia emozionata, ai primi accordi di "Una Foto En Blanco Y Negro". Non l'avevo mai sentita, cantata da El Pescao. Non dal vivo. Quella canzone - e chi mi conosce lo sa bene - ormai per me trascende il mero concetto estetico. Non posso più essere sicura che mi piaccia in quanto tale, perchè ha smesso di essere combinazione di testo e musica dal momento in cui ha iniziato a proiettarmi in testa il film di tutta una vita. 

Una foto en blanco y negro sono io su un treno diretto a Trieste. Io aggrappata alle transenne in qualche posto della Spagna. Io che cammino da sola per le strade di Parma, felice, in un giorno di sole. Mi sembra quasi un essere vivo, ora che si è spogliata da ogni fronzolo elettronico. E, vestita com'è soltanto degli accordi di una chitarra spagnola, mi riassume in tre minuti il motivo per cui sono qui. 

Quando ho comprato il biglietto per assistere al live di David Otero per Live The Roof, non sapevo ancora se sarei potuta andare a Barcellona. Era il penultimo. "Al massimo lo rivendo", dicevo. Ma una parte di me ha sempre saputo che avrei fatto di tutto per non perdermelo.

Perchè, se scegli di andare all'estero per un concerto, dovresti far sì che almeno sia particolare. Diverso dagli altri. Degno, in sostanza, di un ricordo indelebile.

Questo lo è stato. E per quanto abbia dato sfogo al mio insito romanticismo, si è rivelato anche divertente come pochi. Sì. Perchè El Pescao - ho già avuto modo di dirlo - è diventato uno showman di quelli navigati. Uno che, a quelle cento persone su un tetto catalano, racconta aneddoti. Uno che ci chiacchiera e ci interagisce a suon di gag improvvisate con la suoneria di un cellulare, dediche a bimbi e bimbe che gli ricordano i suoi figli, cambi di look "in stile madonna" ed esilaranti siparietti che lo vedono interpretare (con voce in falsetto e doverosa imitazione dell'accento) una ragazza argentina. 





Di David Otero mi piace il fatto che trasmette allegria dentro e fuori dal palco. E' disposto a scherzare sui problemi tecnici, a condividerli col pubblico per non farne mistero. E poi sorride. Sorride sempre. Anche se dopo cento firme e cento foto verrebbe naturale immaginare la stanchezza. La voglia di andarsene. Di stare, semplicemente, un po' da solo. Invece lui ha una parola per tutti, una risata da dipingere su ogni singolo volto, anche su quelli che si sono attardati per guardare le luci della Barceloneta. Un'impressione positiva impossibile da non dare. 

Al concerto di Live The Roof ha offerto un campionario dei suoi successi rivisitati in chiave acustica. Un viaggio musicale che ha dato spazio alle hit piú conosciute della sua carriera solista (Castillo de Arena, Azul Y Blanco, Buscando el sol), alternando brani intimisti (La Luz Oscura del Mar, Cada Día, Me Da Lo Mismo, Cuando llegas tú) con le atmosfere più ritmate e scanzonate di pezzi come Pachanga o Peces Voladores, senza rinunciare a qualche salto nel passato con El Canto del Loco (El Pescao, Tal Como Eres, Volverá, Una Foto en Blanco Y Negro).

Senza altre parole, vi lascio qualche video.
Perché il bello dei concerti intimi al tramonto, lasciatemelo dire, é anche che le riprese riescono piuttosto bene. 










mercoledì 9 settembre 2015

Barcellona, la diffidenza e le api.

Non conoscevo la Paura - quella vera - finchè non l'ho vista sopra di me. Passeggiava ignara, ape di medie dimensioni attratta dal giallo miele delle cappelliere Ryan Air. Per la verità ce l'aveva quasi fatta, a passare inosservata. Ma poi la donna bionda seduta al mio fianco ha borbottato qualcosa che finiva con abeja. Ho seguito l'orrore nel suo sguardo. L'angolo della bocca piegato verso il basso in un'espressione schifata. L'ho vista allora. E' stato allora che ho iniziato a sudare.

Ché non ti puoi alzare, se un aereo è in fase di decollo. Non riesci a raggiungerla neppure alzando il braccio. E l'impotenza - mentre il boeing già sta rullando sulla pista - è la peggior nemica di chi è affetto da fobie.  

Lo stewart (un biondino insipido di madrelingua anglofona) ci sorpassa a passo veloce con una maschera in mano. 

"Ehi! Scusa! Ehi!", lo chiama il marito della donna. Ché siccome l'assegnazione dei posti è quasi sempre contaminata dal Destino, parla con marcatissimo accento andaluso. Il biondino lo ignora bellamente, scatenando una serie di "No veee el capullo éste" che in altre circostanze mi farebbe sorridere. L'ape, intanto, entra ed esce dalla cappelliera sopra alla nostra testa, chiaramente indecisa sul da farsi. Forse c'ha un bagaglio a mano pure lei. 

L'andaluso non demorde. Si incolla letteralmente al pulsante per chiamare l'equipaggio, comprensivo in modo incoraggiante nei confronti dei nostri gorgoglii. E, finalmente, lo stewart pare degnarci della sua attenzione. "Hay una abeja, there's a bee", gli indica il tizio. In due lingue, tanto per non sbagliare. Ma l'altro, che non sembra vedere nell'insetto una minaccia alla nostra incolumità, scuote la testa ridendo sornione. "Non ho tempo adesso, devo fare la dimostrazione di sicurezza", e se ne va. 

La scena che si verifica da lì a poco è destinata a ripresentarsi nei miei incubi per tutti gli anni a venire, come il frame emblematico del più riuscito film dell'orrore. La rivivo a rallentatore. Anche adesso, mentre la descrivo. L'ape che cade dalla cappelliera. La donna che si gira verso di me chiedendo "dov'è finita?". L'ape appoggiata sulla sua guancia, in alto, appena due millimetri sotto l'occhio spalancato. "Ce l'hai sulla faccia", riesco a dire in qualche modo. Dopo di che, scoppiamo entrambe a urlare. L'aereo sta decollando. La donna si dimena. Il marito andaluso prende la giacca da sotto il sedile e la tira in faccia alla moglie, con forza. Poi, si cimenta nel miglior zapateado flamenco per schiacciare l'insetto finito sotto i suoi piedi.

L'aereo è già alto in cielo. 

"E' morta! SONO IL VOSTRO SALVATORE!", esulta.
"Ma sei sicuro che è morta?"
"Eccerto, non li vedi i pezzettini?"
"VI HO SALVATO! NON DIMENTICATE MAI CHE VI HO SALVATO". 

Dieci minuti dopo, il biondino insignificante ricompare al nostro fianco con un bicchiere in plastica di dubbia utilità.
"Where's the bee?", chiede annoiato.
"No more bee", risponde l'andaluso con aria sprezzante. E poi aggiunge, in spagnolo, "ché se aspettavo te stavamo messi bene, cabrón! Avrebbe punto mia moglie e ti avrei lasciato un reclamo che te lo saresti ricordato, hijo de puta".  

Insomma, non si può certo dire che il viaggio a Barcellona fosse cominciato bene. Anche perchè la città la sente, la tua diffidenza. Il tuo filo-ispanico malumore nei confronti delle velleità indipendentiste. L'antipatia per quelli che continuano a parlarti in catalano stretto anche se gli rispondi in castigliano. E poi, se sollevi obiezioni, ti zittiscono con un "qui siamo in Catalunya".  Sì. Decisamente, Barcellona lo sa che - nonostante il mare - le preferisco Madrid. Che la trovo troppo pregna di italiani. Che ricordo ancora il giorno in cui mi hanno rubato il portafogli alla stazione di Sants. Sa che non sopporto i miei connazionali quando, appena nomini la Spagna, tirano in ballo sempre e soltanto lei. Come se non conoscessero altro. Come se il mondo finisse un po' lì. E' bella, bellissima. Ma è una bellezza snob con cui non sono mai riuscita a entrare del tutto in simbiosi.  

La Sagrada Familia riflessa in una pozzanghera.


Agisce di conseguenza, perciò. Distruggendomi nei corridoi lunghissimi del metro. Imprigionandomi nel dedalo di viuzze dei suoi quartieri. Facendomi impiegare quasi tre ore di orologio per raggiungere l'ostello dall'aeroporto de El Prat. E proprio mentre, sudata e sfinita, pensi che ormai non possa andare peggio, ti ritrovi di fronte ad una doccia che si spegne ogni diciassette secondi. DICIASSETTE SECONDI, capite? Ché va bene l'ecologia. Va bene il rispetto dell'ambiente. Va bene il risparmio di acqua. Però, ammettiamolo, è stressante un casino. Ti fa sentire come Desmond quando, in Lost, deve premere il pulsante ogni tot secondi per garantire la salvezza del mondo. E tu mica la vuoi, tutta 'sta responsabilità. 

Per fortuna, dopo la tempesta torna sempre il sereno. E' non è vero solo in senso meteorologico. Chè mentre le nubi si diradano del tutto, finalmente, il viaggio prende la giusta piega. Ed è incredibile - penso- davvero incredibile come ogni volta che metto piede in Spagna (anche se solo per un paio di giorni, anche senza cercarlo) finisco per ritrovarmi immersa dagli appuntamenti. Incontri con persone nuove, sempre interessanti. Re-incontri con amiche che non vedevo da almeno sei anni. E' come se quel Paese fosse il fulcro del mio mondo. Se ci tenesse a riaffermare ogni volta che la maggior parte delle mie conoscenze, opportunità e passioni si concentrano lì. Lo avverto quando conosco Augusto, che vive di musica e mi ha trovata grazie a questo blog. Lo riaffermo seduta a un buon ristorante sul Paseo Maritimo accanto a Roberta, che è stata compagna di avventure ai tempi dell'Erasmus a Malaga e che ha girato il mondo per poi capitare qui. 

"Non tornerei mai in Italia", mi dice. E penso che, a conti fatti, per quale motivo dovrei tornarci io? 

Barcellona, in quel momento, forse mi ha persino perdonata. S'illuminava di sole, nella zona della città che in assoluto preferisco. Odorava di relax e pollo alla brace, e stranamente somigliava alla felicità. Una felicità che non sembrava aver intenzione di essere temporanea. 



Lei è tornata al suo lavoro, negli uffici panoramici della torre Mapfre, e io di colpo ho avuto voglia di aggiornare il curriculum. Il profilo su LinkedIn. Di mollare tutto e andare via. In Spagna sembra sempre possibile. Sembra sempre così facile, persino a Barcellona. Non ti ricordi che non hai il paracadute di nessuna borsa di studio. Non ti frega nulla del prezzo dell'affitto. Non hai... ecco, è soprattutto quello, lì, improvvisamente, non hai più alcuna paura. 

Solo che poi ritorni in Patria. Sull'aereo niente api, questa volta. Solo due ragazzi triestini a cui pensi fino all'ultimo di chiedere un passaggio verso casa. Lo senti dal tono dei loro racconti, che un po' la pensano come te. La butta sul ridere, uno di loro. "Io mollo tutto. Porto sessanta curriculum e cerco lavoro a Barcellona. Una roba la troverò, no? Voglio dire, al massimo vado a spacciare sulle Ramblas". A te scappa un sorriso. Eppure la conosci, quella sensazione. 

Sospiro. Nella testa la vista mozzafiato dalle alture del Tibidabo. L'ottima cucina, inaspettatamente a buon prezzo, di quel bel posto all'imbocco della funicolare. Ricordi un concerto al tramonto, sul tetto di un hotel con la città ai tuoi piedi. La birra fredda sotto al sole. I vecchietti che sgomitano per farsi una foto sotto alla Sagrada Familia. Persino la signora molestissima che ti raccontava la sua vita sotto al tetto del mercato. 

Non è così ostile, Barcellona, dopotutto. 
Forse devi solo riuscirla a capire.  








venerdì 4 settembre 2015

11 (altre) cose che capisci solo se hai vissuto in Spagna

Incredibile come persino la prima settimana di Settembre, di per sè apocalittica, riesca ad essere più sopportabile con la prospettiva di un volo nel weekend. E' quindi con la mente già a Barcellona che rileggo un testo trovato tempo fa su uno dei blog di Hola.com. L'aveva scritto un tale Javier de Miguel, e - riportando l'ironico elenco delle "cose che capisci solo se hai vissuto in Spagna" sembrava quasi la continuazione di uno dei miei tanti, deliranti, sproloqui. Mi è sembrato, perciò, opportuno congedarmi (ma per poco, eh?) riportando, in traduzione, i punti a mio avviso più significativi. Che poi sono la maggior parte, ma vabbè.  La versione completa la trovate qui. 

COSE CHE CAPISCI SOLO SE HAI VISSUTO IN SPAGNA: 


1. La tuta non serve per correre o andare in palestra. Con la tuta si fanno paellas e si va in escursione in montagna. 


2. A pranzo non si mangia "alla carta", si mangia il Menù del Giorno a 10,95 euro. Con il suo bel primo, il suo secondo, il dolce, il pane e la bevanda. E il caffè: richiedilo, magari è incluso pure quello. 


3. I bar, quanto più sono da vecchietti, tanto più autentici sono. Quei bar in cui non si concepisce buttare via i tovaglioli (quelli lì impermeabili, che più che pulire spalmano) nel cestino, ma vanno direttamente sul pavimento sotto al bancone assieme alle teste dei gamberoni e agli ossi delle olive. Sono sporchi, hanno un odore strano, sono esteticamente brutti. Ma sono nostri, e li adoriamo.

4. "Sobremesas" che durano dal pranzo alla cena. (NDT per i non ispanofoni: la sobremesa è un termine quasi impossibile da tradurre in italiano, almeno senza usare una perifrasi; si usa per indicare il tempo trascorso in chiacchiere, ancora a tavola, dopo aver consumato il pasto). Vi giuro che per quanto io abbia viaggiato molto, in nessun posto ho visto fare "sobremesas" di due ore e mezza in cui tra l'altro, quando qualcuno se ne vuole andare, c'è sempre uno che dal tavolo se ne esce con: "ma te ne vai di già? Eddai, prenditi un'altra birretta,no?". E quando te ne vai è solo perchè ti fanno pena i camerieri, che devono andarsene a casa, non certo perchè ne hai voglia. 



5. Fare colazione con pane, pomodoro, olio e sale è strano. Almeno se non sei spagnolo. Per non parlare dell'inzuppare nel latte con Cola-Cao (o nel caffè) le magdalenas, le palmeritas o magari un bizcocho de limón. Però quanto è buono....!


6. In Spagna, finchè non compi i venticinque anni, non sai che il café Olé, in realtà, è il "Café au lait".

7. Insultarsi tra amici non solo non è offensivo, ma indica un enorme grado di confidenza: del tipo "Cogl***, che razza di figlio di p*** sei".  Tra l'altro, chiamare tío (letteralmente: zio) qualcuno non implica nessun grado di consanguineità. (NDT: beh, questo anche a Milano. E tra rapper. Chevvelodicoaffà).

8. Quando ordini qualcosa da bere e non ti portano niente "de picar", da stuzzicare, ti incazzi.
Almeno delle mandorle o delle olive, no? Solo in Spagna puoi sfamarti con le tapas che ti portano quando chiedi un bicchierino di Rioja, un tinto de verano o un paio di birrette. Poi ci sono le tipiche battaglie tra comunità autonome per stabilire dove servano le tapas più grandi, più buone o più grasse. 


9.
Il nostro inno non ha un testo. Nè gli serve. Però, ai Mondiali ci stufiamo un po' a forza di cantare "lo, lo, lo, lo, lo, lo..."

10. Se non sei spagnolo non capirai mai che si può tifare Real Madrid e simpatizzare per il Rayo, ma non essere sia del Sevilla che del Betis. Si può tifare Espanyol e Real Madrid, ma mai Real Madrid e Atleti.

11. Uscire alle 23:30.
Quando in mezza Europa iniziano ad andare a dormire, qui le ragazze si stanno appena facendo belle e i ragazzi ci danno di Axe. Cenare alle 21.30 e pranzare alle 15.00 sono concetti che al di fuori dei nostri confini risultano del tutto incomprensibili. Almeno quanto lo è per noi che olandesi o canadesi preparino la cena alle 18.30. Ma se quella è l'ora della nostra merenda! 




Se almeno un paio di situazioni vi sono risultate famigliari, congratulazioni: ancora una volta, avete dimostrato di essere italo-spagnoli D.O.C! 

martedì 1 settembre 2015

Tipi da spiaggia



Avere il mare a due passi da casa, lo ammetterete, è sempre e comunque una fortuna. Anche quando, al posto dei Caraibi, ti ritrovi un vero e proprio bivio generazionale. E' una regola non scritta. Una convenzione forgiata da anni di morfologie e frequentazioni. 'Somma, se sei nato e cresciuto nel mio paesello sai già dove andare non appena raggiungi la Scalinata: una sorta di confine presidiato tra due Stati appartenenti ad un'identica Federazione. La chiamerò MJ (pronuncia: emmggei) anche se sembra il nome di uno dei Backstreet Boys.



Per gli stranieri ci vorrebbe un cartello, ma forse è già abbastanza esplicativa la fila di motorini parcheggiati: vai a sinistra se hai meno di 20 anni. Sempre dritto se ne hai dai 30 in sù. Per quelli compresi tra i venti e i trenta non è prevista una collocazione. Di fatto immagino che vaghino sperduti in un buco nero piangendo con un bicchiere in mano alla ricerca della propria identità. 

Cioè, più o meno come ho fatto io. 

Io che, infatti, non frequentavo questi posti grossomodo da quando giravo impunemente con un coniglietto di playboy sul culo. E di sicuro non ricordavo come fosse la zona degli "Over". 

Ecco, ora lo so. E posso dirvi che tale ameno loco ti costringe a camminate di kilometri in mezzo a gruppi di vispi pesciolini. Il tuo obiettivo iniziale è una bella nuotata. Poi, quando ti rendi conto di aver quasi raggiunto Trieste a piedi senza esserti neanche bagnata la pancia, inizi progressivamente a ridimensionare le aspettative. L'acqua al ginocchio. L'acqua sotto al ginocchio. L'acqua al polpaccio. L'acqua alla caviglia. Dopo tre giorni finisci col distenderti rassegnata sul bagnasciuga schizzandoti un liquido sabbioso e salato che ha la stessa temperatura del piscio (e, vista la quantità di bimbi, probabilmente lo è). 

Questo lato di MJ (pronuncia emmgei) comprende anche un bar in cui è dagli anni '90 che passano a tutto volume gli Aventura. Di fronte ce n'è un altro, un po' più fighetto. Un tempo era l'unica concessione allo sconfinamento che ci facevamo noi bimbeminkia ante-litteram dopo esserci legate il pareo in vita. Ci sedevamo per mangiare un magnum o un Calippo alla Coca Cola. A volte - proprio in rarissime occasioni - magari giusto giusto un biscotto bigusto (o bi-giusto, in questo caso. Ah ah ah, sono simpaticissima). Ricordo che c'era un juke box dove mettevamo sempre le stesse canzoni. Tipo i LunaPop. Ché sotto certi aspetti sono sempre stata una tipa coerente. 

Comunque. Il lato positivo dell'area Over è la percentuale nettamente minore di ragazzi con le palle.Che detto così sembra una brutta roba. Invece. 

Il fatto è che, vedete, io ho subito una specie di trauma adolescenziale che mi porta ad odiare visceralmente le aggregazioni maschili intente a dilettarsi nel giuoco della pallavolo, calcio o altre discipline dinamiche che prevedono passaggi di oggetti sferici in mare. Per capirlo, dovete sapere che sono sempre stata negata in qualunque tipo di sport. A ciò va aggiunto che per fare il bagno mi tolgo gli occhiali da miope, il che fa di me una specie di accecata che non ci vede più in là di un metro.

Come se non bastasse, da adolescente avevo l'aggravante di girare sempre con amiche molto più attraenti. Il che portava al replicarsi di una stessa situazione: noi che usciamo a fare il bagno e i ragazzi, decisi a provarci (con l'amica) , che fanno cadere apposta la palla verso di noi chiedendo se vogliamo giocare. Capitava che l'amica, in effetti, accettasse al grido di "bello conoscere gente nuova!" o "figo quello, no?" (MA CHI? MA CHI LO VEDE?! MA CHE FACCIA HA?). Ed è così che mi trovavo soggiogata alla Figura di Merda del Secolo dato che, a causa delle suddette cause concomitanti (imbranataggine+cecità) non beccavo una palla manco a morire. Ripiegavo sulla tattica dell'andarmene solo nei rarissimi casi in cui qualche briciola di amor proprio decideva di intervenire, anche perchè passare dal fare la parte della sfigata che non sa giocare alla sfigata che resta da sola a riva non era in ogni caso l'ideale. Da allora, odio con tutta me stessa chiunque giochi in spiaggia e sto alla larga da qualunque pallone anche solo accidentalmente sulla mia traiettoria. 

Beh, tranne in Spagna. Ma - a mia discolpa-  quel tizio a Gandia era davvero carino (avevo gli occhiali!),  per ridargli il pallone bastava un calcetto, e poi in Spagna si sa che sono un'altra persona.




Comunque. A parte qualche raro esponente della categoria sportivi in questione, ci sono altri personaggi caratteristici degni di nota che popolano il microcosmo di MJ (pronuncia emmgei) Over. Come non menzionare, a titolo di esempio, il campionario variopinto di Dormienti?  Alcuni russano sonoramente. Altri si rannicchiano in posizione fetale. C'è anche qualche vecchietto collassato sulla straio con la testa di lato che non capisci se abbia avuto un malore finchè non si riscuote borbottando qualcosa in dialetto. E poi ci sono i bimbi che, sotto lo sguardo attento dei genitori, giocano a:

- Far annegare Barbie Sirenetta immergendola a testa in giù;
- Creare buche di profondità tale da raggiungere il centro della Terra, prevenire i terremoti e contattare Povia;
- Giocare alla Costa Concordia facendo schiantare una nave di plastica contro il secchiello capovolto.

Che tenerezza.

Ancora, ci sono signore che disquisiscono di tecniche depilatorie. Intellettuali che si confrontano per ore sulla fine dell'Impero Romano d'Oriente con quaranta gradi all'ombra (mah!). Famiglie accampate dalla mattina con tende quechua, coperte per picnic, fornellini da campeggio, mini-frigoriferi, e secondo me anche qualche armadio Ikea. Ogni volta che le guardo mi ricordo il monologo di Dani Rovira sugli andalusi, e confesso di sentirmi un po' più a casa. 







Last but not Least, ci sono i venditori. Ma mica quelli del Cocco Bello. Naaa. Troppo inflazionati. Questi, mentre cerchi di adeguarti al mood della tribù dei dormienti, ti propongono, nell'ordine:

- Libri su Martin Luther King. Peraltro in inglese.
- Belle tute (adesso? Ho caldo!)
- Bei pantaloni (adesso? Ho caldo!)
- Bei vestiti (beh, quello quasi quasi...)
-Pinguini Nani di dubbia utilità che, sostenuti da un filo invisibile, sono in grado di galleggiare in piedi sull'acqua. Che, dico io, come si fa a spendere dei soldi per una roba del genere? Ma dove siamo capitati? Certo che le inventano tutte! Ah, il consumismo. Ma ci credete? MAPPERPIACEREAHAHAHAHCHERIDICOLIAHAHAHAHA. 






Lo so, sono bellissimi. Ne voglio subito uno.