lunedì 15 febbraio 2016

Imagine Amsterdam.


Post in differita. Molto in differita. Troppo in differita. Però, in fondo, sempre meglio tardi che mai. 




5 Febbraio 2016. 
La stazione di Bijlmer Arena si apre su un mondo di luci e colori. 

Qui non ci sono biciclette appoggiate ai ponti in attese di acciaio. Le strade non odorano di marijuana e waffle. Nessuna casa si specchia al contrario, pittoresca, nei canali. Eppure è già questa, la zona di Amsterdam che amo di più. 

Mi succede sempre, con i posti non segnati sulle guide. Non poteva non succedermi, nel Paradiso della musica live.

Le persone si muovono a passo svelto, in piccoli gruppi e direzioni alternate. Si incrociano di gusti ed impazienza, riempiendo a poco a poco strade e bar. La senti nell'aria, l'elettricità inconfondibile che precede gli eventi musicali. Si moltiplica e si sparge tra le sale pronte a offrire sogni a chi già attende fuori. Davanti ad un cancello. All'ingresso di uno stadio. Poco importa. Stringono biglietti ben diversi tra le mani ma hanno tutti, sulla faccia, quell'identico sorriso. Quello che, probabilmente, indosso anch'io. 


E' questa, la cosa migliore del concentrare le principali location di concerti 
in pochi metri: che, comunque vada, senti sempre che qualcosa di bello sta per accadere. O è accaduto. Sta accadendo, magari, in questo stesso istante, mentre il vento freddo di una sera qualsiasi ti spettina la frangia sulla strada per l'hotel.

Incredibile, davvero, come la musica sappia costruirti una casa attorno indipendentemente dal luogo in cui ti trovi o dalla lingua che ti parlano accanto. Sono in Olanda. Un posto che non ho mai visitato. Eppure Il rumore metallico dei palchi che si montano è uguale in ogni angolo del mondo. I bus a due piani con i finestrini oscurati, solitari in un parcheggio sterrato, sono gli stessi qui come a Madrid. Nel pomeriggio, persone con il pass legato ai pantaloni accendevano sigarette fuori dall'ingresso staff, ed io mi sono sentita di colpo a mio agio. 




Suonavano i The Foals, ieri, alla Sala Haineken. Oggi, una serpentina ordinata di persone attende un gruppo a me ignoto dal nome Disclosure. Ma è la fila molto più lunga a pochi metri da lì a catturare veramente la mia attenzione. Si dipana da un punto non ben chiaro all'orizzonte, circondando edifici per quelli che mi sembrano kilometri. "Sta a vedere che...". Fermo una ragazza qualsiasi. Mi ispira fiducia. Ha la felicità negli occhi, gli occhiali sul naso, una giacca pesante persino più ingombrante della mia.

"Scusami, siete qui per gli Imagine Dragons?"
"Sì, esatto!"

E benedico di colpo il mio biglietto in gradinata. I posti numerati. L'ansia appena un po' smorzata dall'idea di poter, tutto sommato, aspettare ancora. Anche se, francamente, fosse per me non lo farei. L'impazienza, adesso, è tanta che a quella fila mi accoderei in questo preciso istante. Come quella ragazza che "sarei in gradinata ma ho preferito venire prima". Come quelli del parterre che finalmente intravedono nella frenesia dei buttafuori l'agognato traguardo di un'attesa infinita. Il pre-concerto. Dio, come vorrei sapervelo davvero raccontare.

Sembra ieri che, nei corridoi affollati all'uscita di Assago, ho deciso che li avrei assolutamente dovuti rivedere. Mi era venuta in mente l'Olanda. Avevo pensato che, se l'ultima data è, di per sè, speciale, quella che mette fine il punto a un tour mondiale di due anni doveva essere un evento imperdibile. Aveva senso, lì per lì. 

Poi l'ha perduto.

"Devo essere completamente pazza", negli ultimi giorni non facevo che ripeterlo. Insomma, dai. Comprare un biglietto da una sconosciuta su Internet. Un pdf qualsiasi, che la malafede altrui mi ricordava facilissimo da fotocopiare. Prendere aerei per andare ad un concerto completamente da sola. In una città straniera. Ignota. Pazza è dir poco. Scema non rende l'idea. Certo, se non altro avrei fatto del turismo, visto un posto nuovo. Però tutto il resto... forse, al resto, avrei potuto rinunciare.

Ci avevo pensato. Fino a stasera. Fino a che non ho visto questa fila, questa ragazza. Fino a che le luci proiettate sulla parete dello Ziggo Dome, in lontananza, non mi hanno ricordato chiaramente cosa aveva mosso quella decisione. Una decisione che, come tutte le più assurde, si è rivelata essere poi una delle migliori che abbia mai preso.

Chè meno di un'ora più tardi, all'interno di quel palazzetto enorme, la luce verde sullo scan del ragazzo all'ingresso mi garantirà l'accesso a un personale Luna Park. E sarà bello, nel guardarlo validare il mio biglietto, constatare che delle persone ci si può, a volte, ancora fidare.





Sono seduti accanto a me, i figli della sconosciuta che me l'ha venduto. Un ragazzo e una ragazza, entrambi molto simpatici. Cominciamo a chiacchierare da subito. Perchè la musica è già sottotesto, è premessa al discorso, è il miglior interesse condiviso in assoluto da cui far partire una conversazione. "Siamo tutti qui per la stessa ragione", dirà più tardi, sul palco, il frontman della band. "Non importa la religione, la razza, la provenienza", perchè una manciata di canzoni riesce ad annullare le differenze, a farci sentire parte della stessa storia - foss'anche per due ore scarse appena. "Spread peace and love". Forse, in un coro unisono, si può fare davvero.






Paradossalmente, sono stata più sola ad altri concerti. Non a questo, in cui mi preoccupavo perchè non avrei avuto compagnia. Ridicolo. Ora è quel pensiero a sembrarmi tale, non più l'idea di essere qui. Perchè qui, mentre le luci piano smorzano, si respira già l'inconfondibile atmosfera dell'ultima data. Sa di festa mista a un po' di nostalgia. E non importa da quanto tempo segui un gruppo, da dove vieni, chi sei. E' in quei momenti che capisci che è solamente lì che dovresti essere ora.

I Sunset Sons, dal vivo, mi sembrano ancora più bravi che a Milano. "Devo comprarmi il disco", dico al mio vicino di posto. "Avevi ragione, spaccano". E "lo vedi?". 





Poi, il batterista e il bassista degli Imagine Dragons irrompono sul loro palco in mutande. Una maschera sugli occhi. Il chitarrista che lancia carta igienica per confermare l'usanza tutta americana di finire con gli scherzi una tournè. In fondo inizia già un po' lì, il loro "ultimo concerto".

Un live in cui la scaletta italiana si modifica leggermente per far crollare il palasport sotto il peso emotivo di Amsterdam, uno dei miei preferiti in assoluto. 






O, ancora, per riciclare vecchi brani come Bleeding Out, suonare interamente Hopeless Hopus. Immaginare un cielo stellato dove le torce dei cellulari accendono le tribune in "Second Chances". E meno male che gliel'ho data, la seconda possibilità di farmi stare bene.




Dan Reynolds non riesce ad attaccare Gold, ostacolato da un attacco di genuine risate provocato da uno scherzo non meglio identificato da parte di un suo compagno di gruppo. Daniel Platzman - che la maschera non se la toglie mai - si scatta selfie a pioggia con della gente che, in platea, si è travestita da unicorno. Il cantante dei Sunset Sons si vendica salendo sul palco vestito da donna sulle note di "On Top Of The World".





No, decisamente non è stato un concerto normale. E a chi mi chiede se sia stato migliore o peggiore di Milano posso solo dire questo: che sono felice di averli vissuti entrambi. Che Milano è stata la prima volta, l'attesa interminabile, la scoperta. Invece Amsterdam è stata follia. In tutti i sensi. Ma è stata una follia che, tra le altre cose, mi ha regalato facce nuove, case che si specchiano al contrario, biciclette appoggiate ai ponti e musei spettacolari. 

Ecco perchè le sono grata.

Perchè la mia follia ha quasi sempre a che vedere con la musica. E la musica è - non sarò mai stanca di dirlo- il miglior pretesto in assoluto per viaggiare.




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